Tennista morto per incidente contromano in A22: indagati due carabinieri
Una tragedia e un paradosso
Il 15 giugno l’autostrada del Brennero si è trasformata in teatro di morte: Tobias Tappeiner, 24 anni, maestro di tennis ed ex avversario di Jannik Sinner, ha imboccato contromano l’A22 a Bolzano Sud schiantandosi contro un’auto con a bordo una famiglia altoatesina, gravemente ferita. Una tragedia enorme, che non ha bisogno di aggettivi.
Ma oggi, a distanza di mesi, l’attenzione non è più sul gesto folle del giovane, bensì su chi in quella notte indossava una divisa per garantire sicurezza.
I militari finiscono sotto inchiesta
La Procura di Bolzano ha iscritto due carabinieri nel registro degli indagati per lesioni personali stradali e omicidio colposo. La colpa? Essersi trovati in prossimità del casello, secondo quanto mostrano le telecamere, pochi istanti prima della manovra fatale di Tappeiner.
Un atto formale, dicono. Ma resta il paradosso: come avrebbero potuto i militari prevedere, comprendere e bloccare in tempo reale una manovra improvvisa, rapida ed estremamente pericolosa?
Una corsa contro l’impossibile
Chi conosce la dinamica sa bene che quella di Tappeiner è stata una svolta repentina, impossibile da intercettare se non con il senno di poi. Pretendere che i carabinieri – impegnati in uscita dal casello – potessero anticipare, valutare e impedire un gesto tanto fulmineo significa chiedere l’impossibile.
Eppure, ancora una volta, il primo tassello dell’inchiesta riguarda proprio chi dovrebbe rappresentare l’argine contro il caos: le forze dell’ordine.
L’amaro in bocca nelle caserme
Che l’indagine finirà archiviata sembra probabile. Ma l’effetto collaterale è già tangibile: un clima di sfiducia e frustrazione tra chi ogni giorno lavora in strada, spesso in condizioni difficili e sotto organico. Non bastano le tragedie, non bastano le ferite di una famiglia innocente: serve trovare un capro espiatorio, e troppo spesso quel ruolo ricade sulle divise.
Dove sono i partiti?
Ed è qui che il silenzio pesa di più. Dove sono i partiti che ogni giorno promettono di stare “dalla parte della polizia” non appena compare un microfono o una telecamera? Perché quando si tratta di tradurre le parole in fatti concreti, quando cioè servirebbero leggi, norme e strumenti efficaci per proteggere chi rischia la vita in strada, tutto svanisce. Le leggi non si cambiano con i tweet, con post o slogan da campagna elettorale: si cambiano nelle aule parlamentari, con lavoro duro, con proposte concrete, con decisioni che affrontino la realtà di chi opera in prima linea.
E allora, dove sono le tutele promesse ai carabinieri, ai poliziotti, a chi ogni giorno mette a repentaglio la propria sicurezza? Dove sono i vertici di Arma e Difesa che dovrebbero fare da scudo, da guida, da protezione? Troppe volte le promesse restano parole vuote, garantite sulla carta ma mai tradotte in strumenti concreti. È in queste mancanze, in questa distanza tra chi governa e chi serve davvero, che si misura il peso di mesi sotto indagine, di procedure burocratiche che diventano un fardello insopportabile, soprattutto per chi percepisce uno stipendio infinitamente inferiore a quello di chi siede nei palazzi del potere.
La realtà è semplice e amara: chi fa la propria parte, chi rischia per tutti, non può contare sulle stesse protezioni di chi decide le regole dall’alto. E quando, paradossalmente, a finire sotto inchiesta sono proprio loro, chi dovrebbe sostenerli resta in silenzio, come se bastassero le promesse di ieri a riparare le ingiustizie di oggi.
Se anche i politici fossero indagati per aver fatto il loro lavoro, non riuscirebbero comunque a comprendere fino in fondo cosa significa subire mesi di indagine con uno stipendio dieci volte inferiore e senza le tutele dei palazzi del potere.
