OBBEDIR TACENDO? Dipende in quale ambito. La dipendenza funzionale della polizia giudiziaria con l’autorità giudiziaria esclude ogni interferenza della scala gerarchica nella conduzione delle indagini
(di Cleto Iafrate) – Un Maresciallo dei Carabinieri, comandante di Stazione, viene condannato dal Tribunale militare di Verona alla pena di anni uno di reclusione militare per i seguenti reati:
- insubordinazione con ingiuria continuata e aggravata (art. 189 c.p.m.p., comma 2 e art. 47 c.p.m.p., n. 2) per aver offeso il prestigio, l’onore e la dignità del suo Comandante di Compagnia;
- disobbedienza aggravata (art. 173 c.p.m.p., art. 47 c.p.m.p., n. 2) per essersi rifiutato di obbedire all’ordine di servizio di firmare per presa visione il provvedimento di avvio di un procedimento disciplinare.
La decisione viene prontamente impugnata dal Maresciallo e la Corte di appello militare riforma la sentenza e riduce la pena a mesi cinque di reclusione militare. I giudici di appello ritengono penalmente rilevanti solo le seguenti condotte poste in essere dal Maresciallo:
- l’aver ostacolato il colloquio fra un Brigadiere della Stazione da lui comandata e il Capitano. Quando quest’ultimo gli aveva chiesto di allontanarsi dall’ufficio per potergli consentire di parlare con il Brigadiere, il Maresciallo aveva risposto al suo superiore: «No, l’ufficio è mio, esca lei».
- l’aver rispedito al Capitano in busta chiusa una missiva che il superiore gli aveva inviato, poi risultata essere un provvedimento di “esortazione ad un più diligente e corretto assolvimento dei compiti di comando riferiti al settore della Polizia Giudiziaria”.
Il difensore del Maresciallo, però, convinto delle ragioni del suo assistito, propone ricorso avverso la sentenza della Corte militare d’appello, chiedendone l’annullamento.
La prima Sezione penale della Corte di Cassazione rileva un vizio di motivazione che “mina in modo decisivo la coerenza e logicità del discorso” seguito dalla Corte d’Appello. Il ricorso è fondato. La sentenza, dunque, viene annullata e il caso rinviato per il nuovo giudizio alla Corte di appello militare, in diversa composizione.
La sentenza n. 31829 del 18.07.2019, Sez. I, Cassazione penale.
Per meglio comprendere le ragioni che hanno spinto la Corte di Cassazione ad annullare la sentenza, occorre far luce sui motivi alla base del contrasto tra il Maresciallo e il suo comandante.
Il conflitto insorge in ordine alle indagini di polizia giudiziaria che il Maresciallo stava eseguendo; in particolare, “il contrasto fra il Capitano e il Maresciallo si era manifestato a seguito delle ripetute richieste rivolte dal superiore al subordinato di fornire chiarimenti sul tema della conduzione da parte del secondo di determinate indagini di polizia giudiziaria“.
La difesa del Maresciallo sostiene, infatti, che il sottufficiale con l’uso di determinate espressioni “non aveva fatto altro che manifestare il suo dissenso rispetto alla posizione autoritaria assunta dall’ufficiale“; pertanto, “la Corte militare di appello ha omesso di contestualizzare la condotta messa in essere dal sottufficiale, da valutarsi invece in stretta relazione con le indiscriminate pressioni legate ai continui interventi del superiore gerarchico nell’attività propria della sfera del militare subordinato“.
“Era stato proprio il contrasto su questo argomento che aveva determinato la frattura nei rapporti fra i due militari, avendo il Capitano richiesto al sottoposto delucidazioni sull’attività svolta ed avendo invece il Maresciallo risposto in modo del tutto oppositivo, anche con il comportamento e con gli atti oggetto di contestazione“.
Scrive la Cassazione che la motivazione posta a base della sentenza impugnata non appare adeguata al fine di sorreggere il giudizio di colpevolezza dell’imputato, in relazione all’esigenza di verifica approfondita “della rilevanza dell’interferenza fra gli episodi incriminati e lo svolgimento da parte del militare subordinato di indagini di polizia giudiziaria a lui direttamente demandate dall’autorità giudiziaria“.
In particolare, si dà atto nelle decisioni di merito che il Maresciallo “non aveva inteso deflettere dal compimento dell’indagine già intrapresa e riteneva di non doversi coordinare, per quelle attività di polizia giudiziaria, con i colleghi della Stazione di (OMISSIS), che invece il Capitano considerava essere competenti per territorio, per cui aveva ripetutamente dato indicazioni nel relativo senso“.
La Cassazione evidenzia che la giurisprudenza costituzionale stabilisce che “l’autorità giudiziaria dispone direttamente della polizia giudiziaria e, così, esprime il preciso, non equivocabile, significato di scolpire i due termini del rapporto di dipendenza funzionale, con riferimento all’autorità giudiziaria e alla polizia giudiziaria, in modo da escludere interferenze di altri poteri nella conduzione delle indagini, pur quando tali poteri promanino dalla medesima scala gerarchica dell’operatore di polizia incaricato della conduzione delle indagini: è proprio in virtù di questa salvaguardia assicurata dalla Carta fondamentale alla dipendenza funzionale che la direzione delle indagini risulta effettivamente riservata all’autonoma iniziativa e determinazione dell’autorità giudiziaria medesima“.
In altri termini, scrive la Cassazione, “il rapporto di dipendenza funzionale non tollera che -foss’anche per comprensibili esigenze di natura informativa ed organizzativa- nella dialettica propria del rapporto gerarchico si sviluppino forme di coordinamento investigativo alternative a quello condotto dalla competente autorità giudiziaria“.
La Cassazione precisa, altresì, che “in tal senso deve essere sempre evitato il pericolo che ne risultino interferenze nella diretta conduzione delle indagini riservata all’autorità giudiziaria e che si determini una violazione o anche un’elusione di quello che, a giusta ragione, viene definito il “delicato equilibrio scolpito nella disposizione costituzionale in questione” (v. in questa precisa direzione Corte Cost., sent. n. 229 del 2018, la quale ha dichiarato che non spettava al Governo della Repubblica adottare il D.Lgs. n. 177 del 2016, art. 18, comma 5, recante “Disposizioni in materia di razionalizzazione delle funzioni di polizia e assorbimento del Corpo forestale dello Stato”, nella parte in cui prevede che entro il termine ivi stabilito “al fine di rafforzare gli interventi di razionalizzazione volti ad evitare duplicazioni e sovrapposizioni, anche mediante un efficace e omogeneo coordinamento informativo, il capo della polizia-direttore generale della pubblica sicurezza e i vertici delle altre Forze di polizia adottano apposite istruzioni attraverso cui i responsabili di ciascun presidio di polizia interessato trasmettono alla propria scala gerarchica le notizie relative all’inoltro delle informative di reato all’autorità giudiziaria, indipendentemente dagli obblighi prescritti dalle norme c.p.p.”, e ha conseguentemente annullato tale disposizione nella parte indicata).
La Corte di Cassazione afferma che la verifica della concreta offensività penale delle condotte ascritte all’imputato non avrebbe potuto essere effettuata in modo adeguato senza la previa definizione dell’ambito in cui il superiore aveva impostato le rispettive interlocuzioni con il militare subordinato.
In sintesi, la Corte d’Appello avrebbe analizzato il contegno del subordinato senza, tuttavia, effettuare una compiuta disamina dell’ambito nel quale il contrasto fra i due militari era insorto. Non è stato chiarito in modo adeguato se il contesto, nell’ambito del quale sono state poste in essere le condotte contestate, fosse attinente al rapporto di dipendenza funzionale del militare con l’autorità giudiziaria, oppure se riferibile anche al rapporto gerarchico. Era infatti necessario approfondire se l’intervento del superiore avesse attinto la sfera della dipendenza funzionale, imponendo – tra l’altro – forme di coordinamento investigativo alternative e inconciliabili con i poteri di direzione e controllo riservati all’autorità giudiziaria.
Conclusioni
Il tema dei rapporti tra pubblico ministero e polizia giudiziaria è stato l’oggetto della sentenza n. 229/2018, in relazione a quanto disposto dall’art. 18, comma 5, D.Lgs. n. 177 del 2016, ove si prevedeva che gli ufficiali di p.g., a seguito di apposite istruzioni, trasmettessero alla propria scala gerarchica le notizie relative all’inoltro delle informative di reato, indipendentemente dagli obblighi prescritti dal codice di procedura penale.
La Corte costituzionale ha riconosciuto che l’art. 18, c.5, D.Lgs. 177/2016 “introducendo una penetrante deroga al segreto investigativo disposto dall’art. 329 del codice di procedura penale, avrebbe leso il principio di obbligatorietà dell’azione penale tutelato dall’art.112 Cost., cui il segreto investigativo sarebbe strettamente inerente, nonché l’art. 109 Cost., secondo il quale l’autorità giudiziaria dispone direttamente della polizia giudiziaria.“.
La Corte di Cassazione, dunque, ha fondato la sua decisione di annullare la sentenza della Corte militare d’Appello proprio sulla giurisprudenza costituzionale sopra richiamata.
Il tema è di sicura importanza, in quanto la vicenda in esame si è svolta all’interno di un comando dell’Arma dei carabinieri. E’ giusto il caso di precisare che la norma censurata -art. 18, c.5, D.Lgs. 177/2016- ha origine dall’accoglimento, da parte del Governo, di una delle osservazioni avanzate in data 12 luglio 2016, in sede di parere sullo schema di decreto legislativo sopra citato, dalle Commissioni I e IV della Camera dei deputati. Con decisione assunta a maggioranza, le suddette Commissioni riunite avevano infatti suggerito di estendere a tutte le Forze di polizia la previsione di cui all’art. 237 del DPR 15 marzo 2010, n. 90, il quale dispone che “indipendentemente dagli obblighi prescritti dal codice di procedura penale, i comandi dell’Arma dei carabinieri danno notizia alla propria scala gerarchica delle informative di reato, secondo modalità fissate con apposite istruzioni dal Comandante generale“.
In altre parole, la Corte costituzionale con la sentenza n. 229/2018 ha censurato solo l’art. 18, c.5, D.Lgs. 177/2016 e non anche il 237, c.1, DPR 90/2010, da cui la prima norma discende. Infatti l’art. 18 si limita a riprodurre, con formula sostanzialmente identica, la disposizione già contenuta nell’art. 237. Quest’ultima norma, a tutt’oggi, e ancora in vigore e impone ai carabinieri di fare ciò che la Corte costituzionale ha vietato ai poliziotti e ai finanzieri, ovverosia di riferire alla propria scala gerarchica le notizie sulle indagini in corso.
Vien da chiedersi: come si può pensare che data la vigenza di due norme praticamente identiche, l’una esprima un legittimo coordinamento informativo e organizzativo, in linea con l’art. 109 della Costituzione, e l’altra una forma indebita di intromissione, lesiva degli artt. 109 e 112 della Costituzione. Sarebbe come negare la regola dell’uguaglianza -secondo cui “se A è uguale a B, allora anche B è uguale ad A”- ed affermare che B è diverso da A, nonostante A sia uguale a B.
La matematica dice l’esatto contrario[1].
Bene, dunque, ha fatto la Cassazione ad invocare la sentenza 229/2018 ed ignorare –di fatto disapplicare- l’art. 237 del DPR n. 90 del 2010. D’altronde non poteva fare diversamente, a meno che non si voglia sostenere che l’avverbio “indipendentemente” assuma differenti significati in relazione ai luoghi in cui viene interpretato: ovverosia, nelle caserme della Guardia di Finanza e della Polizia “indipendentemente” significa “a prescindere” ed ha valore derogatorio (questo il motivo per il quale la Corte ha ritenuto la norma incostituzionale), mentre in quelle dei Carabinieri l’avverbio “indipendentemente” significa “fatti salvi”, nel senso che non sono ammesse deroghe. Ma se non sono ammesse deroghe, la norma che motivo ha di esistere?
E altrettanto bene ha fatto il Maresciallo a non deflettere di fronte alle pressioni del Capitano.
Quanto al Capitano, ogni richiesta che di fatto si traduce in una dilatazione del perimetro del segreto investigativo deve essere indirizzata al magistrato. E’ a lui che vanno richieste le notizie sulle indagini in corso, e non a chi, a causa della sua specificità, non è posto in condizione di dire “signornò”[2]. Stesso discorso vale per il Colonnello rispetto al Capitano, per il Generale rispetto al Colonnello e, mi pare ovvio, per le “articolazioni del potere esecutivo[3]” rispetto al Generale.
E’ giusto il caso di precisare che il vocabolo “segreto” deriva dal verbo “seiungo“, che significa “secerno“, “separo“; ossia rispetto a un dato fatto il segreto separa chi è tenuto a sapere, da tutti gli altri che non devono sapere. E’ di tutta evidenza che le possibilità che un fatto rimanga segreto diminuiscano all’aumentare del numero delle persone che ne vengono a conoscenza. Pertanto qualsiasi valutazione circa l’opportunità di ampliare il perimetro delle persone tenute a sapere compete al magistrato, non alla gerarchia.
Sul punto la Cassazione è stata molto chiara: “il rapporto di dipendenza funzionale non tollera che nella dialettica propria del rapporto gerarchico si sviluppino forme di coordinamento investigativo alternative a quello condotto dalla competente autorità giudiziaria – Foss’anche per comprensibili esigenze di natura informativa ed organizzativa“.
Del resto, come si può pensare che un coordinamento possa prescindere dalla conoscenza dei fatti?
È innegabile che il coordinamento presuppone la conoscenza del contenuto e degli sviluppi dell’attività investigativa; cioè di tutti i dati di interesse investigativo (ad esempio, il nome degli indagati o dei destinatari di attività d’intercettazione in corso, il contenuto di singoli atti investigativi, eccetera).
Il fatto che la Corte di Cassazione abbia bocciato la dipendenza “biforcuta[4]” della polizia giudiziaria, ignorando di fatto l’art. 237, c.1, DPR 90/2010 lascia ben sperare.
Le sentenze della Corte di Cassazione hanno sempre costituito un’importante precedente nel nostro ordinamento giuridico, tanto da essere considerate quasi alla stregua di una fonte normativa.
Forse è arrivato finalmente il momento, dopo settant’anni, di dare completa e definitiva attuazione agli articoli 109 e 112 della Costituzione.
Post scriptum
Altro che reclusione militare, il protagonista di questo calvario giudiziario meriterebbe un encomio[5], con la seguente motivazione: “Maresciallo dell’Arma, comandante di Stazione, confermando il possesso di elette qualità professionali ed eccezionale motivazione al lavoro, non comune solerzia ed altissimo senso del dovere, impiegato in un delicatissimo servizio a favore dell’Autorità Giudiziaria, non defletteva dai suoi doveri, nonostante la posizione autoritaria assunta dal superiore e le sue indiscriminate pressioni legate ai continui interventi nell’attività a lui direttamente demandata.
La sua condotta contribuiva ad assicurare l’efficienza della Stazione, meritando l’apprezzamento dell’Autorità Giudiziaria e costituendo sicuro punto di riferimento per i colleghi“.
Cleto Iafrate
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[1] Peraltro, Corte Cost sentenza n. 229/2018, considerato in diritto, parr. 5.1 e 5.2, richiama la delibera del C.S.M. del 15 giugno 2017, pp. 9 e 10 (delibera disponibile in https://www.csm.it/web/csm-internet/norme-e-documenti/dettaglio/-/asset_publisher/YoFfLzL3vKc1/content/proposta-ex-art-10-comma-2-legge-n-195-del-1958-al-ministro-della-giustizia-finalizzata-ad-una-modifica-normativa-dell-art-18-comma-5-del-decreto-legi?redirect=/web/csm-internet/norme-e-documenti/atti-consiliari/pareri-e-proposte-al-ministro), dove si parla della Guida per le Segnalazioni del Comando Generale dell’Arma.
In tale delibera, in buona sostanza, si afferma che la comunicazione degli “elementi essenziali del fatto” non viola il segreto investigativo. Tuttavia, gli elementi essenziali del fatto sono uno degli elementi costitutivi della “notizia del reato” art. 347 c.p.p. : “1. Acquisita la notizia di reato, la polizia giudiziaria, senza ritardo, riferisce al pubblico ministero, per iscritto, gli elementi essenziali del fatto e gli altri elementi sino ad allora raccolti, indicando le fonti di prova e le attività compiute, delle quali trasmette la relativa documentazione.”.
Pertanto, avendo riguardo al diritto esistente, si può affermare che le Informative di Reato ex art. 347 c.p.p. provenienti dall’Arma dei Carabinieri, sono diverse dalle Informative di Reato ex art. 347 c.p.p provenienti dalle altre Autorità di Polizia Giudiziaria.
Tale “disarmonia” costituzionale non necessita di ulteriori commenti.
[2] Per un ampio approfondimento in tema di obbedienza militare, si rimanda ad un precedente contributo: Obbedienza, ordine illegittimo e ordinamento militare, in D&Q 2016, 16/2.
[3] Questa espressione è stata utilizzata dal Procuratore della Repubblica di Bari nel testo ricorso alla Corte costituzionale: “La comunicazione in via gerarchica delle informazioni, prevista dalla disposizione oggetto del conflitto, senza alcun filtro o controllo del pubblico ministero procedente, a beneficio, fra l’altro, anche di soggetti che non rivestono la qualifica di ufficiale di polizia giudiziaria e che, per la loro posizione apicale, vedono particolarmente stretto il rapporto di dipendenza organica dalle articolazioni del potere esecutivo, non appare al ricorrente in linea con le prerogative riconosciute al pubblico ministero nell’esercizio dell’attività d’indagine“.
[4] L’espressione “doppia dipendenza” è stata utilizzata dall’Avvocatura generale dello Stato nell’atto di costituzione in giudizio, nel vano tentativo di sostenere l’inammissibilità del conflitto di attribuzione tra i poteri dello Stato sollevato dal Procuratore della Repubblica di Bari (vedi considerato in diritto n. 4.3.2, sent. 229/2018 Corte Cost.).
[5] L’encomio è una ricompensa di ordine morale prevista dal regolamento di disciplina militare. Viene trascritto nei fogli matricolari dell’encomiato e pubblicato nell’ordine del giorno del corpo, affinché sia da stimolo e da esempio a tutti gli altri militari. Per un approfondimento in tema di concessione di encomi, si rimanda ad un precedente contributo: “Guardia di Finanza, il titolo di studio non vale un encomio“.