Morte di Alessandro Nasta: quattro ammiragli condannati per violazione delle norme di prevenzione infortuni
Tutti condannati per reato di omicidio in concorso, per violazione delle norme di prevenzione degli infortuni sul lavoro, i quattro ammiragli della Marina militare imputati per la morte del giovane nocchiere Alessandro Nasta, precipitato dal pennone di 15 metri della nave scuola Vespucci. Si tratta dell’allora comandante in capo della squadra navale, Giuseppe De Giorgi, 70 anni, dell’allora comandante della nave, Domenico La Faia, 59 anni, dell’ammiraglio Luigi Binelli Mantelli, 72 anni, all’epoca capo di Stato Maggiore, dell’ammiraglio Bruno Branciforte, 75 anni, già capo di Stato Maggiore.
La giudice Vittoria Sodani ha accolto le richieste del pubblico ministero Federica Materazzo, pene che vanno da un anno e due mesi ad un anno e dieci mesi, con sospensione condizionale. I termini di risarcimento saranno stabiliti in sede civile. È stata però disposta una provvisionale di euro ottantamila per i genitori del ragazzo, di quarantamila mila per la sorella. La sentenza, emessa dal tribunale di Civitavecchia, è arrivata ad undici anni dai fatti. I quattro imputati hanno escluso qualsiasi addebito, da subito, dichiarando di non aver avuto alcun ruolo nella tragedia toccata a Nasta. I loro legali avevano chiesto l’assoluzione per tutti.
IL PROCESSO. Il 10 dicembre 2015 il giudice per l’udienza preliminare aveva disposto il rinvio a giudizio per tutti i cinque alti ufficiali. Aveva accolto le richieste di Gianfranco Amendola, procuratore di Civitavecchia, al termine di una inchiesta giudiziaria durata due anni, insieme all’ispettorato del lavoro e alla finanza. Il processo di primo grado era iniziato nel marzo del 2016. Sono cambiati 4 giudici, dall’inizio. In sede dibattimentale, l’omicidio colposo è contestato per più motivi, compreso il fatto che Alessandro fosse stato comandato «di operare in alberata senza accertamenti sulle sue condizioni di salute psicofisica, visto che il marinaio era smontato dal turno di lavoro precedente».
Soprattutto, il nocchiere «non aveva i necessari e idonei dispositivi di protezione individuale previsti dalle norme del 2008, entrate in vigore dal 2010, ma era stato comunque comandato di servizio marinaresco in condizioni di potenziale pericolosità nelle attività svolte in quota». L’accusa di fondo è stata l’omessa applicazione delle norme di sicurezza. Il teorema accusatorio ha prospettato «una catena di omissioni, nelle strutture e nei comandi intermedi», a partire dal documento di valutazione dei rischi, il DVR, che non era stato fatto e che invece «avrebbe dovuto essere operativo, aggiornato in collaborazione con il rappresentante dei lavoratori».
I FATTI. Il 24 maggio del 2012 Alessandro Nasta precipitò dall’albero di maestra della nave scuola della Marina militare. La nave era partita da poco dalla Spezia, la base militare alla quale è assegnata. Alla Spezia viveva il ragazzo, originario di Brindisi. La Vespucci si trovava 40 miglia a nord di Civitavecchia. Si attivò l’elicottero, si tentò una inutile rianimazione. Il ragazzo morì nel trasferimento all’ospedale. Arrivò in pronto soccorso senza vita. Iniziò così la battaglia della madre, Marisa Toraldo: «Chiedo giustizia per mio figlio». Le inchieste militari archiviarono il caso.
«È stata una morte annunciata – ha accusato da sempre la mamma – lo ripeto e lo ripeterò sempre. Alessandro Nasta, un nome come tanti. Era un ragazzo di soli 29 anni, con un futuro pieno di progetti e di speranze». La sentenza di condanna è stata accolta con sollievo da parte dei familiari, scoppiati in lacrime. Del tutto opposto il parere delle difese dei quattro ammiragli, determinate ad appellare il verdetto. È stato accertato che il giovane militare precipitò perché non era agganciato da nessuna parte. Il processo si è incentrato sull’adeguatezza dei ganci di “postazione”, allora in dotazione ai nocchieri. Secondo l’accusa, appunto, non si trattava di dispositivi di protezione individuale rispondenti alle norme in vigore.
LA MADRE. «Il mio Alessandro ha avuto finalmente giustizia», ha detto Marisa Toraldo, in lacrime.La famiglia, assistita dagli avvocati Massimiliano Gabrielli ed Alessandra Guarini, ha reagito con compostezza. Marisa, il marito Pietro, la figlia Federica, hanno seguito tutte le fasi del lunghissimo processo. «Fino all’ultimo non ci ho creduto – confida – temevo di dover assistere ad una assoluzione. Ascoltare le parole di condanna è stato come togliersi un peso dal cuore. Esultare? Non si può esultare, abbiamo perso un figlio. Non possiamo essere contenti. Alessandro non c’è più. Però giustizia è stata fatta».
Fra le persone sempre presenti accanto alla famiglia, il militare Emiliano Boi, infermiere, protagonista della battaglia – vinta – per ottenere controlli sulla qualità delle acque in uso sulle navi della flotta. Da esperto, aveva denunciato casi di contaminazione, dovuti alle condizioni delle cisterne. Aveva dovuto affrontare un processo, accusato di aver diffuso notizie “riservate”, ma è stato pienamente assolto. «Alessandro era uno di noi – dichiara – non doveva morire così. Giustizia è stata fatta».
MILITARI. Fra le parti civili è stato ammesso al processo e anche al risarcimento il Partito dei diritti dei militari, coordinato da Luca Marco Comellini. «È stata riconosciuta la responsabilità penale – afferma Comellini – è stata riconosciuta la colpevolezza dei vertici». L’avvocato del Pdm, Giulio Murano, aggiunge: «È stato accolto il quadro probatorio. Il concetto di lavoro marinaresco, tale da dover essere distinto dal lavoro in quota, è stato travolto dall’assenza di protezioni a tutela della sicurezza del lavoro del personale addetto alla salita “a riva”, che avveniva all’epoca in condizioni di equilibrismo circense».
L’accusa ha fatto pesare il dato che i militari del magnifico veliero, dopo la morte di Alessandro, sono stati dotati di sistemi di sicurezza che escludono la possibilità di caduta e che sono stati “comandati” di agganciarsi, obbligatoriamente, durante la salita e la discesa. Prima non era così. Non solo. Se prima esisteva soltanto un breve “indottrinamento”, vale a dire una spiegazione data dai più anziani su come arrampicarsi, dopo la morte di Alessandro Nasta sono stati fatti ai ragazzi dei corsi di formazione, con una parte teorica ed una parte pratica. La “salita a riva”, come viene chiamata la manovra, è stata inquadrata come condizione di “lavoro in quota”. Con precisi obblighi di protezione.
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