MILITARE UCCISO DALL’URANIO IMPOVERITO. DOPO 5 ANNI LA VEDOVA VINCE LA BATTAGLIA CONTRO IL MINISTERO
Riportiamo un articolo di Corso Viola di Campalto per il Messaggero dell’Umbria. Una sentenza della Corte dei Conti di Perugia ha riconosciuto il diritto alla pensione alla moglie alla figlia del maresciallo dell’esercito italiano Gabriele Ranocchiari morto per un tumore che lo ha ucciso in pochi giorni ad appena 44 anni.
Per la Corte il tumore è venuto «come conseguenza delle missioni di guerra che ha fatto durante la sua lunga carriera nell’esercito. Venendo a contatto più volte con l’uranio impoverito contenuto nelle munizioni in uso alle truppe italiane o alleate che hanno provocato la malattia».
Per poterlo dire apertamente la famiglia ha dovuto attendere cinque anni e percorrere una lunga ed estenuante battaglia legale contro il Ministero della Difesa, battaglia che ha vinto grazie alla sentenza del 20 luglio scorso del giudice Fulvio Maria Longavita della Corte dei Conti di Perugia. Sentenza che lascia spazio a pochi dubbi dichiarando «la dipendenza da causa di servizio dell’infermità che ha determinato il decesso di Ranocchiari e conseguentemente il diritto dei familiari alla pensione».
A dimostrarlo perizie mediche e gli esami autoptici che hanno rilevato la numerosa presenza di particelle dell’uranio impoverito nei tessuti tumorali (l’esame eseguito dalla dottoressa Gatti ha evidenziato «la presenza di una miriade di corpi estranei, in particolare di particelle di cromo e rame»).
Per la moglie Debora e la figlia Elena una battaglia vinta in nome del loro Gabriele: «Nel novembre del 2011 era tornato a casa dall’ennesima missione all’estero, questa volta in Afghanistan – racconta la moglie Deborah – grazie a una licenza che gli avrebbe permesso di passare alcuni giorni a Terni insieme a noi – ma il suo ritorno è stato accompagnato da alcuni sintomi di un malessere che Gabriele ha cercato di approfondire con il supporto dei medici; prima la tac, poi la biopsia, infine la diagnosi impietosa: adenocarcinoma. Inutile il ricorso alle cure, in particolare la chemioterapia. Dopo appena dieci giorni è morto per un arresto cardiocircolatorio e lui si è accorto di tutto: è stato un eroe fino alla fine, anche nella malattia».
Gabriele era uno sportivo, appassionato di atletica leggera e nuoto, è stato istruttore di pentathlon per l’esercito, oltre ad aver conseguito numerosi titoli in ambito podistico: «E’ entrato nell’esercito – racconta sempre la moglie – dall’età di 19 anni ed ha partecipato a numerose missioni di pace. E’ stato anche una grande atleta militare tanto che ancora adesso ha il primato europeo del percorso di guerra. Ha partecipato a numerosi eventi sportivi internazionali».
Dopo la sua morte è iniziata una battaglia contro il ministero della Difesa che Deborah e la figlia Elena non avrebbero mai voluto fare: «Abbiamo purtroppo avuto davanti a noi un muro di gomma con tre dinieghi e tutti con motivazioni assurde e vergognose, come quella che ha descritto mio marito come un forte bevitore di alcool, come fumatore incallito e con una vita sregolata, quando lui era uno sportivo nato e ci teneva al suo fisico alla sua salute. Solo qualche superiore di Gabriele ci ha chiamato e ci è stato vicino sapendo la verità, e avendo collaborato con lui in varie missioni».
Ora finalmente la sentenza a favore della famiglia: «Una lunga battaglia vinta grazie alla nostra tenacia ma anche quella del nostro avvocato Angelo Fiore Battaglia, grinta che ci ha trasmesso Gabriele, ma tanta amarezza per quello che abbiamo subito da un esercito per il quale mio marito ha dato la vita».