Maresciallo dell’Arma scrisse che il Comandante Generale non era super partes. Punito per “Mancato rispetto delle gerarchie”
Un maresciallo dei carabinieri è stato sanzionato per avere inviato, unitamente ad altri commilitoni, una lettera di critica attinente al servizio ed alla disciplina direttamente al Comandante Generale dell’Arma, senza osservare la via gerarchica.
La sentenza di primo grado ha ritenuto la sanzione irrogata illegittima in quanto non aveva tenuto nel debito conto la riconducibilità della condotta all’esercizio di un’attività “parasindacale”, quale quella dell’Associazione culturale di appartenenza, svolta pertanto come privato cittadino.
Con l’atto di appello sono state contestate le affermazioni del giudice di primo grado, sostenendo che l’interessato aveva agito come militare in servizio attivo ed effettivo, giusta le previsioni in tal senso rivenienti dall’art. 5 della l. 11 luglio 1978, n. 382, essendosi rivolto al “Sig. Comandante Generale dell’Arma dei Carabinieri” facendo precedere il proprio nominativo dall’indicazione del grado di maresciallo rivestito nella struttura, pur se come “Segretario nazionale” dell’associazione U.N.A.C. L’appartenenza a tale associazione sarebbe incompatibile ex se con lo status di militare dell’Arma dei Carabinieri, tanto che con provvedimento dell’11 aprile 2001, la cui legittimità è stata confermata dal T.A.R. per il Lazio (sentenza n. 3528 del 18 febbraio 2002), il Ministero della Difesa negava l’assenso alla sua costituzione. La comunicazione avrebbe violato altresì le regole sui rapporti con la stampa statuite in apposita circolare avente ad oggetto le competenze in merito a vari livelli dei Comandi, l’individuazione delle Autorità alle quali richiedere preventivamente le autorizzazioni a rilasciare interviste e, in generale, le prescrizioni da seguire. Del tutto inconferente si paleserebbe infine il riferimento all’inutilità dell’avvalimento del canale gerarchico, non essendo affatto notorio che le relazioni inoltrate per quel tramite siano sempre destinate ad archiviazione con la formula di rito del “fin de non recevoir”.
Le restrizioni, ha chiarito il Consiglio di Stato, imposte ai diritti del cittadino-militare, derivano dai princìpi organizzativi che ineriscono alla struttura del corpo, qualificando in modo necessario il rapporto di impiego in questo comparto dell’amministrazione, quali gerarchia, obbedienza, prontezza, coerenza interna e compattezza. Al riconoscimento generale, dunque, di tali diritti fa seguito l’imposizione, con formula altrettanto generale, di limitazioni nell’esercizio di alcuni di essi, insieme all’osservanza di particolari doveri nell’ambito dei principi costituzionali, al fine di garantire l’assolvimento dei compiti propri delle Forze armate.
Nel caso di specie, tuttavia, non è in discussione il contenuto dell’esternazione del militare nei confronti della struttura, né men che meno la sua riconducibilità a ruoli di rappresentanza sindacale o, più genericamente, “parasindacale”, quale che sia da intendere l’esatta accezione da attribuire alla relativa dizione, evocata anche dal giudice di prime cure come sinonimo di tutela di interessi “privati” dei propri iscritti. La contestazione di addebito, infatti, ha ad oggetto l’inoltro ex se della comunicazione – pubblicata anche sulla stampa – inerente materie di servizio al vertice dell’Arma di appartenenza, bypassando la necessaria filiera gerarchica, in palese dispregio delle regole al contrario imposte dall’art. 12 del R.D.M.
In sintesi, l’utilizzo della “etichetta” associativa si palesa neutro rispetto alla condotta addebitata, sia che la si invochi quale fattore di aggravio dell’illecito commesso, sia che, al contrario, si pretenda di ergerla a scudo per scriminare comportamenti diversamente perseguibili sul piano disciplinare.
La circostanza, cioè, che la comunicazione per saltum al Comandante Generale dell’Arma sia avvenuta utilizzando la sigla dell’Associazione culturale di appartenenza indica presumibilmente il terreno nel quale è maturata l’esternazione critica, ma non muta i contorni oggettivi dell’addebito, centrato interamente sul metodo e non sul merito della vicenda. Del resto, rileva ancora la Sezione, laddove per il tramite dell’utilizzo del paravento associativo il militare avesse la possibilità di pretermettere le regole della gerarchia, ne risulterebbe facile, ben al di là del – peraltro non evocato -diritto di critica, lo strumentale aggiramento, a discapito delle specificità ordinamentali di riferimento.
Con la sentenza 13 giugno 2018, n. 120 della Corte costituzionale, di declaratoria dell’illegittimità costituzionale dell’art. 1475, comma 2, del decreto legislativo 15 marzo 2010, n. 66 (Codice dell’ordinamento militare), si è poi riconosciuto, traendo spunto da una vicenda che comunque vedeva coinvolta ridetta Associazione, il diritto di affiliazione ad associazioni sindacali da parte dei militari. Quanto detto in ragione del ritenuto contrasto della norma con l’art. 117, comma 1, Cost., in relazione agli artt. 11 e 14 della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo, come da ultimo interpretati dalle sentenze in data 2 ottobre 2014 della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, quinta sezione, nei casi “Matelly c. Francia” (ricorso n. 10609/10) e “Adefdromil c. Francia” (ricorso n. 32191/09) e in relazione all’art. 5, terzo periodo, della Carta sociale europea riveduta, firmata in Strasburgo in data 3 maggio 1996 e resa esecutiva in Italia con legge 9 febbraio 1999, n. 30 (per una ricostruzione della vicenda, v. da ultimo Cons. Stato, sez. I consultiva, n. 2571 del 25 settembre 2019). Ciò senza negare la possibilità che la legge adotti restrizioni per determinate categorie di dipendenti pubblici, inclusi gli appartenenti alle Forze armate: con il risultato che la previsione di condizioni e limiti alla libertà di associazione sindacale tra militari, facoltativa per i parametri internazionali, è invece doverosa nell’ordinamento nazionale, al punto da escludere la possibilità di un vuoto normativo, che sarebbe d’impedimento al riconoscimento dello stesso diritto di associazione sindacale. Da qui la ribadita legittimità del comma 1 dell’art. 1475 COM, il quale subordina la costituzione di associazioni e circoli tra militari al preventivo assenso del Ministro della Difesa, disposizione valida, a fortiori, per le associazioni sindacali, in quanto species di quel genus, peraltro di particolare rilevanza (sul punto cfr. il parere rilasciato dalla sez. II consultiva di questo Consiglio di Stato sul quesito avanzato dal Ministero della Difesa proprio in ordine all’applicazione dell’articolo 1475, comma 1, del Codice dell’ordinamento militare, alla luce della sentenza della Corte costituzionale n. 120 del 13 giugno 2018, relativamente al rilascio del preventivo assenso del Ministro della difesa per la costituzione di associazioni professionali tra militari a carattere sindacale, n. 2756 del 23 novembre 2018).
Va reciprocamente escluso anche, rileva ancora il Collegio, che la sigla associativa scrimini di per sé la condotta, dequotando le rimostranze mosse utilizzando la stessa, quale che ne sia stato il veicolo di trasmissione, prescindendo peraltro dai toni, seppur generici, del tutto irriguardosi, come riconosciuto dallo stesso giudice di prime cure, in una sorta di argomentazione a contrario di ciò che legittimamente si sarebbe potuto addebitare al militare e non si è invece stigmatizzato, dando rilievo ad aspetti ritenuti poi irrilevanti disciplinarmente (“essa [contestazione di addebito] avrebbe (pure) potuto porre l’accento sul contenuto della missiva “incriminata” (in cui il Comandante Generale dell’Arma viene accusato, la citazione è pressoché testuale, di non essere “super partes”; ma di avere a cuore solo la sorte di chi gli è vicino”).
Essa, cioè, non attrae alla sfera del “privato cittadino” il comportamento dei suoi iscritti, ammantando di “culturale” un rilievo mosso all’organizzazione del servizio da parte di chi quel determinato servizio è chiamato ad eseguire.