L’APPUNTATO YUE E I SUOI COLLEGHI: “NOI FIGLI DI MIGRANTI DIVENTATI CARABINIERI”
(di Piero Colaprico) – MILANO. L’Italia non sta cambiando, è già cambiata. È musulmano, “anche se non praticante “, stava nella provincia di Enna. Figlio d’immigrati magrebini, padre fruttivendolo e venditore di tappeti, faceva il perito elettronico e il volontario della Misericordia, adesso Yassine Jouirra è carabiniere a Melzo, alle porte di Milano: “Dove c’è da lavorare, vado, e un domani mi piacerebbe entrare nell’investigativa”.
Miriam Moubakir è una donna carabiniere che non ti aspetti per il mix, otto anni nei paracadutisti della Folgore e laurea con 110 e lode in Storia dell’arte a Firenze. Meno di trent’anni, figlia di un’italiana e un marocchino, sta in una stazione nel centro di Bologna, e se ogni tanto per le traduzioni collabora con l’Anticrimine, il suo sogno è, dice con accento toscano, “entrare nel nucleo di tutela del patrimonio artistico e museale, sono innamorata delle opere d’arte che abbiamo”, e si capisce che potrebbe parlarne incantata per ore.
Figlia di una russa e di un bellunese, Marigianna Romor in questo preciso momento, a ventitré anni, fa il piantone, per giunta sotto la neve in Val Badia: “Qui in regione stanno aumentando di anno in anno i turisti russi e quando i colleghi vengono a sapere che scrivo anche in cirillico mi ripetono che sono fortunata, ma non è solo fortuna”, infatti è andata alla scuola tedesca del Sacro Cuore e poi al liceo classico linguistico tedesco, parla russo, tedesco – leggeva Kant in originale – e ladino.
Il più famoso del gruppo, nel senso che è l’unico finito sui giornali, e soprattutto sui siti, compresi quelli cinesi, è Yue Cai. Alto, magro, 27 anni, nato a Shanghai, ha fatto il liceo scientifico. Più che un carabiniere, sembra un fotomodello, o un d.j., gli rovina un po’ lo stile internazionale lo spiccato accento romano, degno di Er Piotta: eppure è stato lui, quando nell’estate dell’anno scorso c’è stata una sorta di rivolta dei cinesi a Sesto Fiorentino, ad impedire che la situazione degenerasse e a spiegare che i controlli dell’Azienda sanitaria li subiscono tutti, mica solo i cinesi.
Arbjon Vela è figlio di un tecnico di laboratorio dell’università di Tirana, immigrato a Fano quando lui aveva cinque anni e mezzo: adesso è iscritto a Scienze politiche a Bologna ed è tornato da poche ore da una faticosa trasferta con il Battaglione. Era di turno anti sciacallaggio nella zona terremotata di Macerata e ha seguito il trasferimento di alcune opere d’arte dalle chiese: ci sono furti, trovato qualche ladro?, domandiamo. “No, meglio per loro “, è la risposta.
Sono giovani carabinieri, “con la faccia un po’ così”, e se sanno ripetere, esattamente come i colleghi più anziani, di “essere al servizio degli altri”, nello stesso tempo rivendicano di rappresentare una novità, di sentirsi a cavallo di due culture. Come emerge dal sogno professionale di Yue Cai: “Eravamo immigrati a Roma in quattro, mia nonna, i miei e io. Sì, sono figlio unico, hanno risparmiato, mi hanno fatto studiare e un giorno, quando sarò pronto, mi piacerebbe – dice – andare in servizio all’ambasciata italiana e mostrare a Shanghai, e a Pechino, che in Italia c’è uno di noi che si è così integrato da diventare carabiniere “.
Nei racconti di Cai e degli altri emergono tanti piccoli normali dettagli della “scuola della strada” che, sotto la guida dei più anziani e “smagati” colleghi, hanno cominciato a praticare: “Anche per scrivere le denunce c’è una procedura, il maresciallo mi spiega quale sia la nostra e mi tratta come una sorella minore”, dice Moubakir, la parà laureata. “Partecipo anche ai servizi di pattuglia e ordine pubblico, mi hanno detto che la prima cosa importante è imparare bene ogni aspetto del lavoro del carabiniere”, aggiunge la nordica Romor, tra il telefono che squilla e le persone che bussano alla porta.
Con Yassine Jouirra e il suo comandante andiamo di pattuglia nell’isola pedonale modaiola e alcolica di corso Como: “I miei parenti sono musulmani e sono fieri di quello che faccio, sono uscito al corso come numero 177 su 1658, in caserma ho capito ancora di più come la diversità non sia un motivo di pregiudizio, ma un valore. Un paio di volte ho preso delle denunce di persone che parlavano male l’italiano e scambiare delle parole in arabo ha modificato in senso favorevole per tutti la situazione. Tu sei magrebino e sei carabiniere? E com’è possibile?, mi chiedevano”, ricorda Yassine. “Avevo chiesto come destinazione Bologna e Bologna, la città dell’università più antica, ho avuto, ne sono felice. Esagero? Macché, ho realizzato un progetto di vita, adesso so che devo fare quello che fanno gli altri, e sta bene, poi si vedrà. Quanto all’uso dell’albanese – spiega Arbjon Vela – è stato forte in un bar vicino allo stadio: stavamo chiedendo delle informazioni, il barista voleva darcele, ma era un po’ in difficoltà con la lingua, quando mi sono fatto avanti è rimasto con la bocca aperta, sgomento”, dice, con un aggettivo preciso.
“Esatto, molte persone d’origine straniera ci guardano come se fosse incredibile poter incontrare qualcuno che conosce la loro lingua, che somiglia, ma è carabiniere e a me – aggiunge Moubakir – è successo di sentirmi particolarmente utile quando, su richiesta del capitano, ho contribuito a raccogliere la testimonianza di una donna straniera, maltrattata in casa”.
Per il momento nessuno dei neocarabinieri, tutti vincitori di una selezione per le forze armate e poi, nel 2014, del concorso per entrare nell’Arma, ha cominciato, per usare il burocratese, ad “interagire stabilmente ” con le comunità d’origine. Nessuno viene mandato in prima linea nelle operazioni antiterrorismo o antigang; o usato, addirittura, come infiltrato. Per ora. Perché, indubbiamente, sia loro, sia i comandanti sono consci che questa sia una possibilità d’impiego. Come lo sanno altri colleghi: da quando abbiamo incontrato i primi, ci stanno arrivando telefonate informali da parte di altri militari di origine ucraina, egiziana, romena. Per rivendicare, in quest’Italia che sta crescendo senza alzare muri, un inatteso e vagamente orgoglioso “signor giornalista, guardi che ci sarei anch’io”.
Repubblica.it