L’autrice affronta la nuova figura del medico militare introdotta
all’articolo 77 del Codice di Deontologia Medica del 2014 nonché i limiti alla
sperimentazione sui soldati introdotti dall’articolo 76 del medesimo Codice.La figura che è
scaturita dall’articolo 77 del Codice di Deontologia Medica è quella di un
medico militare che non può avere doveri diversi rispetto al medico civile. Da
ciò discende che il medico militare deve svolgere la propria professione al
fine di tutelare la salute fisica e psichica del malato, nel rispetto della
volontà e delle convinzioni di quest’ultimo. Non potrà, quindi, porre in essere
procedure diagnostiche, terapeutiche o sperimentali contro la volontà del
soldato paziente, rispettandone l’autonomia. I limiti alla
sperimentazione sui soldati
Di Cinzia Scotto
Il Codice di Deontologia Medica introdotto nel maggio 2014 ha
rivoluzionato la figura del medico che opera in ambito militare.
Per la prima volta, infatti, all’articolo 77, è stato affrontato il tema
della medicina militare, precisando come nella figura del medico militare
risulti predominante la professionalità medica, sia pure inserita nella rigida
catena di comando delle Forze Armate.
Questo radicale cambiamento di impostazione è il frutto dell’evoluzione
del concetto di bioetica in ambito militare (La professione medica nei 150 anni
dell’Unità di Italia. Dalla storia al futuro. Sanità Militare e società civile.
La Maddalena, 30 settembre-1 ottobre 2011)
Un autore sostiene che questo cambiamento di atteggiamento è stato
probabilmente determinato dall’inserimento delle donne nelle Forze Armate (Maurizio
Balistrieri, Il medico militare e il paziente soldato: la bioetica militare di
fronte alla violenza della guerra) e dalla natura delle guerre degli ultimi
anni, che vedono i mezzi meccanici sempre più protagonisti rispetto ai soldati.
Va, peraltro, rilevato che il presupposto etico alla base della nuova
concezione del medico militare e del militare più in generale è il ripudio
della guerra “come strumento di offesa alla liberà degli altri popoli e come
mezzo di risoluzione delle controversie internazionali”(articolo 11
Costituzione Italiana).
La figura che è scaturita dall’articolo 77 del Codice di Deontologia
Medica è quella di un medico militare che non può avere doveri diversi rispetto
al medico civile. Da ciò discende che il medico militare deve svolgere la
propria professione al fine di tutelare la salute fisica e psichica del malato,
nel rispetto della volontà e delle convinzioni di quest’ultimo. Non potrà,
quindi, porre in essere procedure diagnostiche, terapeutiche o sperimentali
contro la volontà del soldato paziente, rispettandone l’autonomia.
Dovrà, inoltre, astenersi da atti che possono in qualsiasi modo
costituire partecipazione o complicità o incitamento alla tortura o che
rappresentano punizioni crudeli o degradanti.
È evidente che tale impostazione è contrapposta a quella di quanti
ritengono che le esigenze militari impongano al medico militare di adottare
un’etica deontologica più blanda, dando priorità ai possibili vantaggi bellici.
In ambito civile è ormai pacifico il diritto del paziente a scegliere se
accettare un determinato trattamento sanitario e che tale trattamento possa
essere imposto solo in presenza di determinate situazioni strettamente previste
dalla legge ( Trattamento Sanitario Obbligatorio).
Dopo l’introduzione dell’articolo 77 del Codice Deontologico medico, il
principio di autodeterminazione vale anche per il soldato-paziente, in pace e
in guerra.
Quanto al rapporto tra medico militare e paziente-soldato, è identico a
quello che si instaura in ambito civile tra il medico ed il paziente.
Spinosa si presenta, prima facie, la problematica della riservatezza.
Tale obbligo, tuttavia, ai sensi dell’articolo 77 del Codice di Deontologia
Medica è identico sia in ambito civile che militare. Non a caso, infatti, anche
il medico civile deve avvisare le autorità di alcune situazioni potenzialmente
a rischio. Ugualmente il medico militare potrà deontologicamente violare
il dovere di riservatezza nel caso in cui il paziente soldato manifesti fobie
potenzialmente pericolose per i commilitoni o per il soldato stesso.
Mutata, inoltre, è la concezione del diritto del soldato alla cura in
scenari di guerra. Era una prassi consolidata quella per cui il medico
militare, quando doveva curare più soldati feriti contemporaneamente, optasse
per salvare quelli che avevano più possibilità di sopravvivenza, affinchè
potessero al più presto ritornare in guerra.
La moderna tecnologia, tuttavia, consente di spostare i feriti da una
zona all’altra in poco tempo. Il medico militare, pertanto, non dovrà più
operare tale scelta se in situazioni di estrema necessità, che dovranno essere
successivamente vagliate attentamente sotto il profilo della responsabilità
professionale.
Relativamente al rapporto con il paziente soldato prigioniero, sempre
l’articolo 77 del Codice Deontologico Militare impone che il medico militare
debba attenersi agli stessi principi etici che utilizza nei confronti dei
pazienti soldati amici.
Il medico militare, pertanto, non soltanto non potrà impegnarsi in atti
di partecipazione alla tortura ma non potrà nemmeno usare la sua competenza per
assistere ad interrogatori di prigionieri con modalità che violino la loro
dignità.
Non potrà, poi, certificare un buono stato di salute dei prigionieri
quando non sia convinto di questo.
Il rapporto tra il medico militare ed il prigioniero è venuto di
attualità dopo l’11 settembre 2001, quando in alcuni Stati occidentali si è
diffusa l’idea che le torture o, in ogni caso, trattamenti che comportano un
disagio fisico per il prigioniero, siano strumenti indispensabili per ottenere
informazioni che possono salvare la vita a migliaia di persone (S.Nathanson,
Terrorism ed Ethics of War, Cambridge University Press, 2010),
Tralasciando la considerazione che non è da escludere che i prigionieri,
per evitare le torture, ammettano crimini che non hanno commesso o forniscano
informazioni inutili ( S.H. Miles, Oath Betrayed Torture, Medical
Complicity and The War of Terror, Random House, New York, 2006), devono
essere valutati i danni causati a questi innocenti ed i riflessi sui
carcerieri, che potrebbero diventare persone meno capaci di vivere in contesti
non segnati dalla violenza (J.M. Arrigo, A Utilitarian Argument Agaist
Torture, in “Science ad Engineering Ethics”, 2004.)
Non a caso, infatti, l’ultimo comma dell’articolo 77 recita “In ogni
occasione, il medico militare orienterà le proprie scelte per rispondere al
meglio al conseguimento degli obiettivi e degli intendimenti del proprio
comandante militare, in accordo con i principi contenuti nel presente Codice,
fermo restando il rispetto dei limiti imposti dalle normative nazionali e
internazionali nonché da eventuali regole di ingaggio che disciplinano
l’operazione militare”.
Collegato – e non solo per posizione nel Codice Deontologico Medico – è
l’articolo 76, che delimita la cd “medicina potenziativa”, ovvero a quella
parte della medicina che si rivolge alla“intenzionale modifica e
potenziamento del naturale funzionamento psicofisico dell’uomo”.
Tale articolo nasce dal documento approvato il 22 febbraio 2013 dal Comitato
Nazionale per la Bioetica che ha indicato i limiti entro i quali la medicina
potenziativa può dentologicamente operare, proprio con riferimento alla
medicina militare ed alla sperimentazione sui soldati.
Il Comitato Nazionale per la Bioetica ritiene “sia indispensabile
sostenere l’esistenza di un diritto indisponibile del militare alle stesse
procedure di garanzia che regolano la sperimentazione sull’uomo”.
La possibilità di sperimentare sui soldati non solo l’aumento delle
possibilità genetiche, farmacologiche, microelettromeccaniche di potenziamento,
potrebbe produrre i cd “mech warriors” uomini macchina sempre più distanti
dall’uomo normale, con la conseguenza che potrebbe mutare la stessa concezione
di identità umana.
L’unico discrimen, di conseguenza, risiede nella distinzione tra
“ottimizzazione” della performance umana, che si riferisce a strategie per
sostenere la performance in situazioni di stress – selezione, addestramento, nutrizione,
equipaggiamento, e “potenziamento”, ovvero le strategie per creare capacità
umane che vanno oltre la normale variabilità biologica, attraverso
modificazioni della funzione umana – mediante la chirurgia, modifiche
genetiche, farmacologia, stimolazione neuronale.
A mero titolo esemplificativo, si può considerare un potenziamento
deontologicamente illegittimo il programma di chirurgia refrattiva con il
laser messo in atto dalla forse armate statunitensi su mille piloti
dell’aereonatica e su oltre 230 mila soldati, per ottenere una capacità visiva
di 15 decimi, con evidenti vantaggi nella visione a distanza.(P.Lin, More
Than Human? The Ethics of Biologically Enhancing Soldiers, IEET 2012)
Va, inoltre, rilevato che tali trattamenti non si possono considerare
effettuati “a fini terapeutici”, perché vengono effettuati su soggetti sani,
senza protocolli e senza controlli esterni, per ottenere risultati che
risentono delle condizioni ideologiche del momento, in aperto contrasto con il
rispetto della dignità umana.
L’articolo 76 del Codice Deontologico Medico, pertanto, prevede che
“Il medico, quando gli siano richiesti interventi medici finalizzati al
potenziamento delle fisiologiche capacità psico-fisiche dell’individuo, opera,
sia nella fase di ricerca che nella pratica professionale, secondo i principi
di precauzione, proporzionalità e rispetto dell’autodeterminazione della
persona, acquisendo il consenso informato in forma scritta.”
In ogni caso, la sperimentazione deve tenere conto dei limiti posti dalle
Convenzioni Internazionali sull’uso di armi biologiche (1972) e chimiche
(1993). L’articolo 1 della Convenzione sulle armi biologiche proibisce la
produzione ed il possesso di agenti mibiologici. Tale divieto potrebbe
estendersi, per analogia, ai soldati potenziati con farmaci.
Riassumendo, il medico militare che opera sperimentazioni, deve
conformare il proprio operato ai principi di dignità e integrità – per non
modificare in maniera permanente l’integrità psicofisica del soldato, al
principio dell’acquisizione del consenso informato ed infine al principio di
uguaglianza, per cui sarebbe illegittimo operare discriminazioni di carriera
tra chi si sottopone alla sperimentazione e chi la rifiuta.