Geopolitica

LA DOTTRINA TRUMP DEL “GRANDE RITORNO”: DA PANAMA ALL’ARTICO, LA NUOVA MAPPA DEL POTERE AMERICANO

Il geopolitologo Giancarlo Elia Valori analizza le strategie espansionistiche di Trump attraverso una lente storica e strategica raramente esplorata. La sua analisi rivela come le apparentemente eccentriche proposte dell’ex presidente USA celino in realtà una visione geopolitica coerente, mirata a consolidare l’egemonia americana di fronte alle crescenti sfide globali. Dal Pacifico all’Artico, passando per i Caraibi, emerge un disegno di “riconquista” territoriale che affonda le radici nella storia americana e guarda al futuro controllo delle rotte commerciali mondiali. Un’analisi lucida che supera i facili giudizi e svela le reali dinamiche del potere internazionale.

di GIANCARLO ELIA VALORI

Honorable de l’Académie des Sciences de l’Institut de France

Honorary Professor at the Peking University

Trump: la geopolitica del “ritorno”. Dalle isole Marshall alla Groenlandia

Marzo 2025

Linda Restrepo capo della prestigiosa rivista Inner Sanctum Vector n 360 nella sua lungimirante visione internazionale.

Prima che Trump prestasse giuramento ufficialmente come nuovo presidente degli Stati Uniti d’America, aveva già sconvolto la geopolitica internazionale, proponendo una dopo l’altra la fusione degli Stati Uniti d’America con il Canada, l’acquisizione della Groenlandia, la ripresa del Canale di Panama, la ridenominazione del Golfo del Messico come “Golfo americano” e così via. Tuttavia, dietro tutte queste offerte apparentemente folli si nasconde la grandiosa visione di trasformare gli Stati Uniti d’America in un leader mondiale. Non per nulla, se ci fate caso gli Stati Uniti d’America, sono l’unico Paese al mondo che ha una “ragione sociale” non localizzata a una parte di un Continente (ad es.: Stati Uniti del Messico, Italia, Repubblica Popolare della Cina, Botswana, Australia, ecc.), bensì ad un Continente intero: “d’America”.

Sebbene molti commentatori abbiano ridicolizzato queste folli proposte, quando inseriamo i progetti nella teoria delle relazioni internazionali, non è difficile scoprire che sono effettivamente ragionevoli fino a un certo punto. È solo che le norme degli ultimi decenni hanno limitato l’immaginazione internazionale dei politici comuni. Inoltre, nessuno dei suggerimenti di Trump è originale, ma si basa più o meno sulla storia. Quindi, partendo dalla stessa idea, a parte questi piani che sono stati svelati, gli Stati Uniti d’America hanno un’altra concezione delle relazioni internazionali – gettando nel cassonetto della storia le sciocche pretese del provincialismo becero italiano che ritiene un presidente di sinistra (Biden) e uno di destra (Trump). Chiunque fosse Trump, penserebbe che le seguenti espressioni geografiche di cui tratteremo potrebbero essere considerati candidati per unirsi agli Stati Uniti d’America.

I tre Paesi insulari del Pacifico settentrionale: le Isole Marshall (181,5 kmq; 41.996 ab.), gli Stati Federati di Micronesia (707,1 kmq; 106.194 ab), e la Repubblica di Palau (489 kmq; 17.989 ab.). Questi tre Paesi insulari del Pacifico settentrionale sono ora membri delle Nazioni Unite, ma un tempo erano affidati all’amministrazione fiduciaria degli Stati Uniti d’America, finché la Casa Bianca non ha firmato con loro il Compact of Free Association (CoFA; legge statunitense dal 13 novembre 1986), consentendo loro di diventare indipendenti sotto mentite spoglie: in quanto Washington cura i loro affari esteri e difesa, in pratica sono indipendenti per burla, bensì alla stregua di sottospecie di protettorati.

In parole povere, la comunità internazionale non è certa da tempo se gli Stati Uniti d’America abbiano ancora la sovranità sui tre Paesi, perché gli Stati Uniti d’America continuano a gestire le tre espressioni geografiche attraverso l’Office of Insular Affairs, proprio come facevano prima di firmare il CoFA e proprio come governano le Samoa Americane. Secondo il CoFA, i cittadini dei tre Paesi possono lavorare liberamente negli Stati Uniti d’America. Si tratta di un accordo molto speciale. In breve, nessuno dubiterebbe che questi tre Paesi siano semplicemente semi-colonie degli Stati Uniti d’America. Uno stato di indipendenza così vago è vantaggioso per entrambe le parti: gli Stati Uniti d’America possono avere più voti nella comunità internazionale e possono lasciare che altri facciano alcune cose che non è politicamente corretto svolgere (lavoro sporco come accettare detenuti indesiderati), il che può ridurre alcuni costi di governance, costruendo al contempo buoni rapporti con i popoli indigeni del Pacifico.

Tuttavia, negli ultimi anni, la Repubblica Popolare della Cina si è infiltrata attivamente nell’Oceano Pacifico come trampolino di lancio per potenziali interferenze nei cortili di casa degli Stati Uniti d’America e dell’Australia. Poiché questi Paesi hanno popolazioni sparse, abbondanti risorse naturali e grandi acque territoriali, sono stati tradizionalmente gli obiettivi dell’espansione della sfera di influenza cinese. Però, attualmente, le Isole Marshall e la Repubblica di Palau hanno relazioni diplomatiche con Taiwan, ma l’influenza di Pechino è già ovunque sulle isole. Se la Repubblica Popolare della Cina riuscisse a far sì che i tre Paesi insulari del Pacifico settentrionale si staccassero dalla sfera di influenza degli Stati Uniti d’America, o addirittura firmasse un accordo di partenariato con i tre Paesi, ciò costituirebbe una leva per allontanare gli Stati Uniti d’America dalla seconda catena insulare. Ma pensare che questi tre Paesi abbiano la forza di agire contro gli interessi della madrepatria è praticamente impossibile: basti pensare alla fine che fece il governo rivoluzionario di Grenada nel 1983.

Per cui Trump non ha bisogno di proporre la fusione dei tre Paesi. Deve solo cambiare i termini del CoFA e rendere l’espulsione delle forze che danno fastidio alla Casa Bianca un obbligo dei tre Paesi. Questo è sufficiente per risolvere molti problemi. Tuttavia, il modo più efficace per risolvere la questione una volta per tutte è consentire ai tre Paesi di entrare a far parte del territorio degli Stati Uniti d’America.

Geograficamente e culturalmente, i tre Paesi predetti, il Commonwealth statunitense delle Isole Marianne Settentrionali (472 kmq; 49.551 ab.) e Guam (541 kmq; 153.836 ab.) condividono tutti stesse lingua ed etnia. Se si unissero in un’unica unità, è possibile che in futuro diventino addirittura uno Stato “indipendente”. Per i cittadini dei tre Paesi, diventare statunitensi è anche una garanzia della loro identità. Inoltre, i loro cittadini giovani e di mezza età si sono già recati negli Stati Uniti d’America per lavorare. Di conseguenza le idee di Trump sull’assorbimento di alcuni Stati cosiddetti indipendenti e colonie varie proprie e di Paesi terzi, non sono altro che un antemurale nei confronti del piano che la Repubblica Popolare della Cina sta progettando da molti anni.

Gli Stati Uniti d’America nella prima catena di isole hanno sempre utilizzato le isole Ryūkyū (dal cin. Liuqiu) come uno dei loro fulcri. Dopo la II Guerra Mondiale, gli Stati Uniti d’America governarono direttamente le isole Ryūkyū per molto tempo e persino emisero francobolli indipendenti sull’isola, che rafforzavano l’antica identità del regno di Ryūkyū. Fu solo nel 1972 che l’isola Okinawa fu restituita al governo giapponese, e questo fu l’inizio della disputa sulla sovranità delle isole Sensaku (cin. Diaoyu). Oggigiorno, la maggior parte delle persone dà per scontato che Okinawa sia una parte inseparabile del Giappone e pochi sanno che quando Washington passò quelle isole al Giappone, vi fu grande insofferenza da parte degli abitanti, che si attendevano l’indipendenza.

Trump, in quanto anziano, conosce molto bene la storia degli Stati Uniti d’America e deve avere un ricordo profondo degli anni in cui il suo Paese governava le isole Ryūkyū. Non sottovalutate questo stato psicologico della memoria studentesca dell’attuale presidente statunitense: nelle mappe su cui Trump studiava da ragazzo, la zona del Canale di Panama, le isole Ryūkyū, i tre Paesi insulari del Pacifico settentrionale, ecc. ecc. ecc. erano tutti territori degli Stati Uniti d’America. Non è difficile capire che è consapevole di voler ripristinare la sua patria che, come abbiamo detto, non ha una ragione sociale (i.e. nome dello Stato) localizzata regionalmente.

Proprio perché la causa principale della questione delle isole Sensaku (Diaoyu) è il ritorno alla memoria delle isole Ryūkyū (Liuqiu), negli ultimi anni la Repubblica Popolare della Cina ha chiarito di sostenere il movimento per l’indipendenza delle Ryūkyū e ha iniziato a sensibilizzare gli studiosi di diritto internazionale per dimostrare che Okinawa non è territorio giapponese fin dai tempi antichi. Per Pechino, se le Ryūkyū diventassero indipendenti, è naturale che risenirebbero dell’influenza cinese, e la questione delle isola Sensaku (Diaoyu) verrebbe facilmente risolta. Questo vorrebbe dire che sarebbero gli Stati Uniti d’America ad essere posti da parte: e questo a Biden, a Trump a e a chi verrà non va bene. Le basi militari statunitensi a Okinawa non sono mai state molto popolari tra la gente del posto, che ambisce a una vera indipendenza. Sebbene forniscano una grande quantità di valuta estera e incentivi economici, di tanto in tanto si verificano ancora conflitti con la popolazione civile. Il Giappone è un Paese retto da un sistema parlamentare. Se l’opinione pubblica continua a opporsi alle basi militari statunitensi, il governo deve almeno rispondere. Ma d’altro canto, Trump ha bisogno che l’esecutivo nipponico si assuma maggiori responsabilità per la comune alleanza, il che significa aumentare la spesa militare e le tasse di protezione, riducendo al contempo i prezzi delle basi utilizzate dalle forze armate statunitensi. Questo andirivieni può facilmente portare a un divario nelle aspettative e persino consentire alla Repubblica Popolare della Cina di trarre vantaggio dalla situazione. Questa serie di problemi è sufficiente a compromettere in modo sostanziale la stabilità della regione Asia-Pacifico/Oceano Indiano-Oceano Pacifico; strutturalmente, a lungo termine, potrebbe rivelarsi addirittura più critica della situazione nello Stretto di Taiwan. Pur se la Repubblica Popolare della Cina unificasse Taiwan, non fermerebbe la propria influenza, e Okinawa/Ryūkyū ne avrebbero un ascendente.

Se Trump risolve il problema dalla fonte più alta, la situazione potrebbe improvvisamente diventare chiara. Ciò non significa che gli Stati Uniti d’America debbano sostenere gli indipendentisti delle Ryūkyū affinché guidino il movimento per l’indipendenza o annettano direttamente l’isola Okinawa. Però il fatto che gli Stati Uniti d’America un tempo governassero direttamente e a lungo termine le isole Ryūkyū, così come la governance a lungo termine degli Stati Uniti d’America nella zona del Canale di Panama, stia fornendo alla Casa Bianca una giustificazione storica per proteggere i loro interessi onde dichiarare il “ritorno”. Per cui la soluzione più logica – al di là di indipendentismi vari – è quella di stabilire in modo permanente la base militare statunitense a Okinawa senza mutare la sovranità locale. Dicasi lo stesso per Taiwan, nei confronti del vicino Stato nord-orientale per l’isola di Yonaguni, l’isola più occidentale del Giappone.

Questo è in realtà è il modello della base militare statunitense di Guantánamo a Cuba: gli Stati Uniti d’America controllavano Cuba dopo la guerra ispano-americana del 1898. A quel tempo, Cuba era uno stato vassallo (già colonia spagnola), quindi Washington affittò permanentemente Guantánamo. Dopo la vittoriosa rivoluzione di Fidel Castro (1° gennaio 19599, questo trattato venne comunque rispettato, consentendo che la base di Guantanámo fosse utilizzata dalle forze armate statunitensi. Se Trump, nella sua trattativa con il Giappone, utilizza il “blocco” della base dell’isola di Okinawa come tariffa di protezione per gli Stati Uniti d’America e fa schizzare alle stelle il prezzo, indipendentemente da quanto paghi alla parte giapponese, si tratterà di un profitto sicuro.

Un altro posto che Trump dovrebbe prendere in considerazione per l’annessione diretta da parte degli Stati Uniti d’America è il Territorio britannico dell’Oceano Indiano, che non avrebbe dovuto essere sulla lista. È stato solo a causa delle azioni maldestre del governo laburista britannico che è diventato un problema che poteva essere affrontato semplicemente. Si tratta dei Territorio Britannico dell’Oceano Indiano (BIOT-British Indian Ocean Territory, 60 kmq; oltre 5mila ab. con le isole: Chagos, Diego Garcia, Pero Banhos, Salomon Islands, Three Brothers, Six Islands, Egmont Island). Sebbene il governo laburista britannico abbia rilasciato un annuncio congiunto con il governo della Repubblica di Mauritius (isole: 2.007 kmq; 1.223.427 ab.) per cedere la sovranità del BIOT a quella Repubblica, le due parti non hanno ancora raggiunto un accordo definitivo perché il nuovo governo mauriziano ha aumentato la posta. Per gli Stati Uniti d’America, la posizione strategica della base militare statunitense BIOT è molto importante. Può essere considerata un fulcro importante dell’intera strategia indo-pacifica. Non esiste un’altra base ideale per monitorare l’intero Oceano Indiano e non c’è possibilità di rinunciare alla base BIOT.

Per arrivare alla radice del problema, bisogna prima esaminare la legge. Nel 1966, il Regno Unito e gli Stati Uniti d’America firmarono un accordo per l’utilizzo da parte degli Stati Uniti d’America dell’isola principale di Diego Garcia, BIOT, come base militare. Non si faceva menzione di alcuna tariffa (ovvero, era gratuita), ma il Regno Unito ricevé uno sconto una tantum per l’acquisto di missili statunitensi nello stesso anno. L’accordo valido per 50 anni, è stato rinnovato automaticamente per 20 anni, ovvero fino al 2036, a meno che una delle parti non proponga di porre fine alla cooperazione. In altre parole, in quanto inquilini, gli Stati Uniti d’America dovrebbero avere voce in capitolo nel trasferimento improvviso della sovranità sul BIOT da parte della Gran Bretagna a Mauritius. Proprio come nel mondo degli affari, anche se a volte il locatore vende la sua proprietà insieme al contratto di locazione e l’inquilino deve continuare a pagare l’affitto al nuovo proprietario, se il comportamento del nuovo proprietario viola gravemente il contratto di locazione originale tra il vecchio locatore e l’inquilino medesimo, questi può anche ricorrere contro il nuovo proprietario. Ad esempio, se l’accordo tra l’inquilino e il vecchio proprietario prevede di affittare lo spazio per gestire una galleria d’arte privata di lusso, ma il nuovo proprietario gestisce un locale equivoco al piano terra, e ogni giorno si presentassero personaggi loschi nei paraggi, sarebbe insolito che l’inquilino non si lamentasse. Quando gli Stati Uniti d’America presero in affitto il BIOT dal Regno Unito, l’accordo stabiliva chiaramente che sarebbe stato utilizzato come base militare.

Se Mauritius dovesse diventare il nuovo proprietario quest’anno e il contratto di locazione degli Stati Uniti d’America come inquilino non dovesse scadere prima del 2036, anche se non dovesse ancora pagare l’affitto (il che è già un grosso interrogativo), potrebbe essere influenzato dalla direzione “commerciale” del nuovo proprietario. Se Mauritius introduce forze ostili agli Stati Uniti d’America nel BIOT, come nel caso sopracitato, dove un locale equivoco a piano terra disturba l’inquilino del primo piano, come possono gli Stati Uniti d’America continuare a fare affidamento su questo luogo come base militare?

Pertanto, Trump ha effettivamente la motivazione, le qualifiche e la capacità di considerare questo “accordo” come una “acquisizione ostile”. Sebbene gli Stati Uniti d’America siano solo un inquilino, questa caratterizzazione può essere utilizzata per ritenere che il Regno Unito abbia violato il contratto perché non ha fatto del suo meglio per soddisfare le condizioni del documento, che va da oggi al 2036, in conformità con la “sicurezza nazionale” delle basi militari statunitensi. Se una parte viola il contratto, può chiedere un risarcimento o semplicemente proporre un nuovo “accordo” per risolvere una serie di problemi. Il nuovo “accordo” prevede naturalmente che il Regno Unito, in quanto stato sovrano del BIOT, venderà direttamente i BIOT agli Stati Uniti d’America.

In futuro, se i popoli di Mauritius o Diego Garcia volessero intentare una causa o rivendicare la sovranità, potranno rivolgersi direttamente a Trump, e l’esausto Regno Unito potrà liberarsi di questo fardello. Gli Stati Uniti d’America possono anche, in cambio, consentire al Regno Unito di condividere la base gratuitamente. Dal punto di vista degli interessi del Regno Unito, non c’è spazio per un rifiuto.

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Trump ha anche proposto di riprendersi il Canale di Panama. Oltre a chiedere al governo panamense di ridurre il prezzo per gli Stati Uniti d’America per l’uso del canale, era anche preoccupato che le “forze ostili” della Cheung Kong Holdings di Li Ka-shing di Xianggang (Hong Kong) – che controlla i porti su entrambe le estremità del Canale di Panama – sarebbero diventate un punto di ingresso per la Repubblica Popolare della Cina per infiltrarsi nel cortile di casa degli Stati Uniti d’America.

Però se questa è la preoccupazione degli Stati Uniti d’America per la “sicurezza nazionale” in caso di guerra, la semplice riconquista del Canale di Panama non sembra essere sufficiente. Nei Caraibi – il suddetto cortile di casa degli Stati Uniti d’America – Trump ha altri due posti da prendere in considerazione per “fusioni” e “acquisizioni”: il primi sono le indipendenti Bahama (13.939 kmq; 339.314 ab.). Le Bahama sono un Paese sovrano indipendente. Sebbene la loro importanza geopolitica non sia grande quanto quella di Panama, è anche un importante gatekeeper (sorvegliante all’ingresso) degli Stati Uniti d’America. Le Bahama distano solo 80 chilometri dalle isole della Florida, sulla costa orientale degli Stati Uniti d’America, una distanza che può essere sicuramente percorsa avanti e indietro a nuoto. Se forze ostili monitorassero gli Stati Uniti d’America attraverso le Bahama, si tratterebbe di una grave crisi per la sicurezza nazionale.

Capita che la Cheung Kong Holdings di Li Ka-shing sia anche il finanziatore delle Bahama. Ha iniziato a investire massicciamente già alla fine degli anni Novanta, diventando in particolare il maggiore azionista singolo del porto strategico Freeport Container Terminal (il maggiore porto di container sito, nell’isola di Grande Bahama) e attualmente controlla circa il 2% del territorio nazionale. Poiché molti beni di prima necessità vengono trasportati negli Stati Uniti d’America attraverso le Bahama, gli Stati Uniti d’America hanno numerose strutture di sicurezza in quell’arcipelago e temono anche che vari articoli di contrabbando possano essere introdotti illegalmente dai terminal container controllati dai «cinesi di Hong Kong». Anche pretendere che le Bahama espellano le forze di Hong Kong o chiedere alle Bahama di unirsi agli Stati Uniti d’America come 51° stato è in linea con il pensiero di Trump.

Un altro è la colonia britannica con autonomia interna delle Isole Turks e Caicos (498 kmq; 49.309 ab.): uno dei famosi paradisi fiscali; e già tempo addietro il Canada aveva in programma di annettere queste piccole isole. Infatti le uniche industrie economiche là sono società fittizie per contrabbando di denaro, il che rende le isole l’ambientazione ideale di molti romanzi e film di spionaggio. Il sistema legale locale è quello britannico e viene comunemente utilizzato il dollaro statunitense, il che è abbastanza simile al principio cinese di «un Paese, due sistemi» di Hong Kong. Se gli Stati Uniti d’America avessero voluto fondersi con il Canada, come avrebbero potuto non accorgersi di questa “quasi-colonia” canadese nei Caraibi? Non sottovalutate queste isole apparentemente insignificanti. Se gli Stati Uniti d’America le prendessero, potrebbero riciclarla completamente a loto totale disposizione finanziaria esterna.

Trump sembra avere molta familiarità con la storia dell’espansione moderna degli Stati Uniti d’America. Dovete sapere che le attuali Isole Vergini Statunitensi (Virgin Islands of the United States: 348 kmq; 87.146 ab.) furono acquistate nel 1917 dalla Danimarca, dal governo del presidente Thomas Woodrow Wilson (1856-1924; pr.1913-21), a pretesto delle preoccupazioni circa l’infiltrazione in tempo di guerra da parte di forze ostili e l’impatto sulla sicurezza del vicino Canale di Panama. Naturalmente si pone la seguente domanda: sulla base della stessa logica, perché oggi non possono aversi acquisti simili?

E veniamo alla questione groenlandese. Trump ha compreso perfettamente che la posizione strategica della Groenlandia (2.166.086 kmq; 56.699 ab.; dal 1953 parte integrante del Regno Danese), ha una fondamentale importanza nella geopolitica dello scioglimento dei ghiacciai artici. Se apriamo la mappa, capiremo che se gli Stati Uniti d’America ottengono la Groenlandia, non hanno motivo di rinunciare a un altro luogo artico con un’identità molto simile alla Groenlandia: le isole Svalbard (60.299 kmq; 3.042 ab.; norvegesi, ma area non incorporata del Paese, non fanno parte dell’area Schengen). In parole povere, la sovranità delle Svalbard appartiene alla Norvegia, proprio come la sovranità della Groenlandia appartiene attualmente alla Danimarca, ma le isole Svalbard hanno un trattato internazionale che ne stabilisce lo status speciale. I Paesi di tutto il mondo possono svolgere attività commerciali sull’isola, chiunque può entrare nell’area senza visto e ha il diritto di risiedere e lavorare a tempo indeterminato. L’unica cosa è che non puoi morire lì perché il corpo non può decomporsi. La sovranità della Norvegia sull’isola è relativamente limitata. Questo accordo è dovuto al fatto che le risorse nell’Artico dovrebbero appartenere a tutta l’umanità. È solo per comodità amministrativa che i Paesi accettano di consentire alla vicina Norvegia di esercitare una governance limitata.

In altre parole, le isole Svalbard potrebbero essere più facilmente soggette a infiltrazioni da parte di alcune grandi potenze rispetto alla Groenlandia. E questa non è un’ipotesi, ma una realtà oggettiva che si è verificata. Durante la guerra fredda, l’Unione Sovietica stabilì alcune basi scientifiche nelle isole Svalbard, dove i cittadini sovietici lavoravano e conducevano “attività di ricerca didattica”. Se scoppiasse una vera guerra, chi arriva prima potrebbero usare installazioni militari per invadere in qualsiasi momento i territori artici dei Paesi vicini, e gli Stati Uniti d’America.

Nel corso del sec. XX, molti statunitensi hanno proposto di acquisire la Groenlandia e hanno pure preso in considerazione le isole Svalbard. Trump è pure consapevole che se il Circolo Polare Artico sarà il punto caldo geopolitico di domani, il Circolo Polare Antartico non farà eccezione.

Sin dalla scoperta dell’Antartide, i Paesi più grandi e persino quelli medi e piccoli hanno issato le loro bandiere al Polo Sud, sostenendo ciascuno di loro di avere una sovranità parziale sull’Antartide in base ai principio di occupazione di terra nullius del diritto internazionale. Dopo una serie di battaglie verbali, i Paesi hanno finalmente firmato il Trattato Antartico a Washington il 1° dicembre 1959 fra Argentina, Australia, Belgio, Cile, Francia, Giappone, Norvegia, Nuova Zelanda, Regno Unito, Stati Uniti d’America, Unione Sudafricana (allora dominion del Regno Unito) e Unione Sovietica. Essi raggiunsero un consenso per “congelare” le rivendicazioni di sovranità di vari Paesi e condurre congiuntamente “esplorazioni di ricerca scientifica” in Antartide. Però il cosiddetto “congelamento” non significa che i Paesi “rinuncino” alle rispettive rivendicazioni di sovranità in Antartide. Tutto sta a chi spara il primo colpo, e il Trattato Antartico potrebbe morire in qualsiasi momento. Chi al mondo oggi è più propenso di Trump a stracciare il Trattato Antartico e ad annettere formalmente parte di quel territorio?

Prima di affermare sui giornali: «proposte folli», «richieste ridicole» e via dicendo, è bene che qualcuno si studi la storia, almeno che sappia leggere e non solo scrivere.

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