IN ATTESA DELLA CORTE COSTITUZIONALE ALCUNE CONSIDERAZIONI IN LIBERTÀ SUL MOBBING MILITARE
(di Cleto Iafrate) – Il termine mobbing deriva dall’inglese “to mob”, che significa “assalire, molestare”. E’ stato mutuato nelle scienze sociali dall’etologia, ove osservando il comportamento degli animali che vivono in branco si notava che alcuni esemplari venivano aggrediti dai loro simili, al fine di allontanarli dal gruppo.
Tale definizione è stata poi ripresa dal diritto del lavoro e dalla psicologia delle organizzazioni perché emergeva che nell’ambiente lavorativo, tale dinamica riscontrata negli animali, riviveva.
Pertanto, in tale contesto il mobbing veniva definito come “un insieme di comportamenti aggressivi di natura psicofisica e verbale, esercitati da un gruppo di persone nei confronti di altri soggetti[1]”
Il fenomeno nell’ambiente professionale, solitamente si concretizza in “angherie, vessazioni, demansionamento lavorativo, emarginazione, umiliazioni, insulti, maldicenze, aggressioni fisiche e verbali, ostracizzazione[2]”.
2. I RECENTI APPRODI DELLA GIURISPRUDENZA ORDINARIA
Una recente sentenza della Cassazione[3], ribadisce che “secondo la giurisprudenza di legittimità … ai fini della configurabilità del mobbing lavorativo devono ricorrere: a) una serie di comportamenti di carattere persecutorio – illeciti o anche leciti se considerati singolarmente – che, con intento vessatorio, siano posti in essere contro la vittima in modo miratamente sistematico e prolungato nel tempo, direttamente da parte del datore di lavoro o di un suo preposto o da parte anche di altri dipendenti, sottoposti al potere direttivo dei primi; b) l’evento lesivo della salute, della personalità o della dignità del dipendente; c) il nesso eziologico tra le descritte condotte e il pregiudizio subito dalla vittima nella propria dignità; d) l’elemento soggettivo, cioè l’intento persecutorio unificante di tutti i comportamenti lesivi. …”.
Tuttavia, fino a qualche anno fa, non era pacifico che ai fini della configurabilità del mobbing fosse necessario che il lavoratore dimostrasse l’intento persecutorio. Infatti, secondo la sentenza n. 359/2003 della Corte Costituzionale, le “condotte mobbizzanti” “possono -forse è il caso di dire, potevano- consistere sia in atti giuridici veri e propri, che in comportamenti materiali accomunati dalla duplice peculiarità di potere essere, se esaminati singolarmente, anche leciti, legittimi o irrilevanti dal punto di vista giuridico e tuttavia di acquisire comunque rilievo quali elementi della complessiva condotta dall’effetto e talvolta, secondo alcuni, dallo scopo di persecuzione e di emarginazione”.
Pertanto, negli anni è prevalso l’orientamento più “restrittivo” e “meno garantista” per i lavoratori.
E’ evidente che nessun “preposto” dirà al “mobbizzato” “vedi che ti sto perseguitando e/o discriminando”!
3. Il MOBBING MILITARE NELLA RECENTE GIURISPRUDENZA AMMINISTRATIVA
Descritti per sommi capi i caratteri costitutivi del mobbing nel lavoro privato, così come delineati dalla giurisprudenza ordinaria, vediamo ora il punto di vista della giurisprudenza amministrativa in ambito militare.
A tal fine, si veda la recente sentenza n. 310/2018 del Tar Lombardia – Milano Sezione III che si attesta in buona sostanza alla giurisprudenza in materia del Consiglio di Stato. I giudici non hanno riconosciuto il mobbing in quanto il lavoratore – su cui incombe l’onere della prova – non è riuscito a dimostrare l’intento persecutorio[4].
Inoltre, è doveroso segnalare che nella predetta sentenza viene affermato quanto segue: “In termini generali va osservato che molti degli episodi riferiti sono riconducibili a fisiologiche conflittualità tra subordinati e superiori gerarchici, particolarmente esasperati in un ambiente, quale quello militare, in cui il principio della superiorità gerarchica permea profondamente la disciplina del rapporto di servizio”.
Sul tema della conflittualità nei rapporti gerarchici torneremo dopo, nelle conclusioni.
Il Tar di Milano -richiamando T.A.R. Genova sez. II, 23 febbraio 2016 n. 193- per spiegare il concetto di “fisiologica conflittualità in ambito militare”, ricorda che i trasferimenti del personale militare “appaiono in realtà una normale prassi organizzativa in ragione delle mutevoli esigenze della forza armata[5]”.
Sappiamo bene, però, che dietro un trasferimento per “preminenti esigenze organizzative”, talvolta ci sia ben altro, a prescindere dalla “verità processuale” che emerge[6].
3.1. L’ “asserito” mobbing militare fuori dal processo
Quel che resta di questa sentenza, però, investe la dimensione extraprocessuale dell’ “asserito” mobbing militare, ovvero ciò che talvolta avviene nelle caserme, e che viene menzionato dal giudice di prime cure di Milano.
In particolare, viene alla luce che “il ricorrente avrebbe presentato domanda di rapporto al Capo di Stato Maggiore … per motivi di carattere personale, privato e di servizio. Avendo il Comando di appartenenza rilevato la non correttezza dell’istanza, il ricorrente avrebbe allora presentato due distinte richieste, una per motivi personali e una per motivi di servizio, dirette al Ministro della Difesa”.
Ciò premesso, non è noto se il militare in questione sia poi riuscito ad essere ricevuto da una delle predette Autorità. Dalla scelta lessicale del giudice di Milano –rilevato la non correttezza, il ricorrente avrebbe allora…- sembrerebbe che la prima istanza non abbia ottenuto soddisfazione.
Per il lettore non militare, si ricorda che l’art. 725 DPR 90/2010, tra i Doveri propri dei Superiori, prescrive che il Superiore “deve – e non “può”– accordare i colloqui richiesti”.
Inoltre, secondo l’art. 735 DPR 90/2010 -Relazioni con i Superiori-, “La richiesta di conferire con dette autorità deve essere trasmessa con la massima sollecitudine”[7]. Quindi, in caso di presentazione di istanza di conferimento “irrituale”, sarebbe più corretto sollecitare al militare istante la regolarizzazione dell’istanza.
Ma chi vigila sul rispetto delle regole poste a tutela degli interessi degli Inferiori?
E’ giusto il caso di precisare che in ambito militare l’azione disciplinare è discrezionale. E spesso tale discrezionalità ha le maglie di larghezza proporzionale al grado che ha il militare da valutare.
4. CONCLUSIONI
Ricapitolando, la dimostrazione del mobbing è attività assai complessa, se non viene dimostrato l’intento persecutorio, il lavoratore militare rischia di essere vessato in maniera indisturbata. Se il predetto lavoratore chiede di conferire con la superiore gerarchia che avrebbe il potere di bloccare le “asserite” vessazioni nei suoi confronti, tale conferimento potrebbe essere ostacolato proprio da chi, a torto o a ragione, viene vissuto come (presunto) “vessatore”.
Tutto ciò, nonostante sia riconosciuto il clima di “fisiologiche conflittualità tra subordinati e superiori gerarchici, particolarmente esasperati in un ambiente, quale quello militare, in cui il principio della superiorità gerarchica permea profondamente la disciplina del rapporto di servizio[8]”.
Un tempo, si diceva che le Forze Armate non necessitavano di organizzazioni sindacali, in quanto nelle stesse non è presente la contrapposizione di interessi tra datore di lavoro e lavoratori subordinati tipica del rapporto di lavoro privato.
Si asseriva infatti, oggi come allora, che Superiore ed Inferiore erano appartenenti alla stessa Organizzazione, soggetti alla stessa disciplina e pertanto, non vi sarebbero stati nei loro rapporti, interessi contrastanti. Quindi, il “benessere del personale” era affidato a Comandanti di vario livello, che per tale incombenza erano affiancati dai rispettivi “Comitati” che compongono la Rappresentanza Militare.
A tal proposito si consideri che venti anni fa la Corte costituzionale ha liquidato assai frettolosamente le legittime richieste di diritti associativi provenienti dal mondo militare con una motivazione per nulla giuridica. La complessità della questione, forse, avrebbe richiesto un più ampio approfondimento.
Secondo i giudici costituzionali il riconoscimento dei diritti associativi non sarebbe compatibile con la “coesione interna e neutralità” dell’ordinamento militare, elementi necessari per garantire la “massima operatività ed efficienza” dell’Ordinamento militare (Sent. 449/99)[9].
Però, una volta riconosciuto che nelle caserme “le conflittualità sono particolarmente esasperate nei rapporti gerarchici”, la contrapposizione di interessi è in re ipsa.
LE CONFLITTUALITÀ ESASPERATE SONO L’ANTITESI DELLA COESIONE E DELL’EFFICIENZA.
Inoltre, la stessa Rappresentanza Militare non sempre ha la possibilità di tutelare adeguatamente il personale[10].
Quindi, si auspica che il prossimo Aprile[11], la Corte Costituzionale decida di concedere ai militari i diritti associativi, perché, come sopra dimostrato, la negazione di quei diritti non ha impedito l’aumento della conflittualità nelle compagini militari. Anzi tutt’altro.
La presenza delle associazioni potrebbe, invece, canalizzare il malessere degli associati e contribuire al “benessere organizzativo”. Si pensi all’esempio sopra riportato in merito al supposto diniego di conferimento col Superiore Gerarchico. Un’associazione di militari, quale soggetto autorevole ed “alter ego” della scala gerarchica potrebbe con la sua opera condurre ad un ripensamento del Superiore e far ottenere al militare in questione il desiderato colloquio. Insomma, potrebbe vigilare sull’esatto adempimento delle regole poste a garanzia dei diritti degli inferiori.
In altre parole, anche alla luce di quanto riportato in nota 10, si nota subito la differenza della concezione di fondo che contraddistingue l’operato delle associazioni esterne all’Amministrazione, abituate in determinati contesti a dialogare in maniera “orizzontale”, rispetto a quello degli “organismi affiancati” al Comandante, che inevitabilmente affrontano le stesse questioni dialogando in maniera “verticale”.
Tale differente concezione emerge anche nel linguaggio utilizzato.
Le richieste che provengono dagli organismi di rappresentanza quasi sempre sono precedute da espressioni del tipo “ove nulla osti” oppure“ove ritenuto”. Riprendendo l’esempio riportato in nota 7, si “esprime l’auspicio che il Ministero della Difesa convochi, ovvero ammetta comunque … a conferire”. In tale circostanza, probabilmente, un’associazione avrebbe potuto direttamente “chiedere” l’audizione del militare.
In tal modo, la legalità amministrativa sarebbe ripristinata, perché verrebbe rispettato il predetto art. 725 DPR 90/2010, il Superiore avrebbe ulteriori elementi di informazione sull’operato del proprio diretto sottoposto esercitando un’effettiva azione di ispezione e controllo che, a sua volta, garantirebbe un’autentica coesione ed efficienza; ma soprattutto, il militare coinvolto allevierebbe il proprio “senso di mobbing”.
A tal proposito si consideri che da una recente interrogazione parlamentare[12] è emerso che il dato dei suicidi tra gli appartenenti alle forze di polizia evidenzia un malessere particolarmente allarmante. E’ emerso che “presso l’Arma dei Carabinieri il tasso di suicidi registrato nell’ultimo quinquennio supera di circa 4 volte la media italiana”.
Si afferma, altresì, che “numerosi studi scientifici condotti hanno evidenziato la sussistenza di una maggiore correlazione al fenomeno dei suicidi, proprio in quelle istituzioni caratterizzate da un elevato grado di controllo sul personale…”.
Il dato appare in tutta la sua drammaticità se solo si considera che il confronto non è avvenuto tra due campioni omogenei:
– la popolazione degli appartenenti alle forze di polizia ricomprende una fascia di età che va dai 20 ai 60 anni, quella della popolazione generale è molto più ampia; se comparassimo due campioni omogenei il tragico gap sarebbe ancora maggiore;
– per essere cittadini non serve una selezione, per appartenere ad una forza di polizia, invece, si deve superare una selezione che prevede anche test psicologici e un colloquio che hanno lo scopo di selezionare persone con un particolare equilibrio.
Non si esclude che alcuni di questi suicidi si sarebbero potuti evitare, se fossero presenti sul territorio associazioni di categoria con possibilità di canalizzare il malessere e disinnescare così le conflittualità.
Cleto Iafrate
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[1] Www.wikipedia.org, voce “mobbing”. Ove si legge inoltre che talvolta il termine è stato usato come “sinonimo di bullismo”. E, fenomeni ad esso contigui possono considerarsi il “bossing” ed il “nonnismo”.
[2] Www.wikipedia.org, voce “mobbing”.
[3] Cassazione Civile, sezione Lavoro, sentenza 20/12/2017 n. 30606 disponibile su www.altalex.com, commentata da G. Mattiello, “Mobbing configurabile con l’abusivo esercizio del potere disciplinare”.
[4] Tar Lombardia – Milano cit.: “… in base al quale il giudice, …, possa verificare la sussistenza, nei suoi confronti, di un più complessivo disegno preordinato alla vessazione o alla prevaricazione … il carattere esorbitante ed unitariamente persecutorio e discriminante del complesso di condotte poste in essere (cfr. Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 21 settembre 2015, n. 4394)”.
[5] Nel caso in disamina, infatti, il ricorrente -tra le condotte asseritamente “mobbizzanti”- rappresentava di aver subito un trasferimento “discutibile”, in quanto impugnato con ricorso gerarchico poi rigettato.
[6] C. Iafrate, IL CASO DI UN SOTTUFFICIALE DELLA GUARDIA DI FINANZA TRASFERITO D’AUTORITA’. Segue: LO SVIAMENTO DI POTERE, QUALE FIGURA SINTOMATICA DELL’ECCESSO DI POTERE, SPIEGATO IN MILITARESE, in www.ficiesse.it.
[7] Per un caso di diniego di rapporto gerarchico, si veda E. Fedocci, Guerra per il vertice dell’Arma dei Carabinieri Generale Gallitelli sposta Giuliani a sorpresa, in www.cronacacriminale.tgcom24.it, ove si legge “… E alla sua richiesta di andare a rapporto dal ministro della Difesa, Roberta Pinotti, Gallitelli avrebbe risposto con un “no” secco”. In fondo all’articolo, viene riportato un comunicato ANSA del 29 luglio 2014 riconducibile al Coir Milano, il Consiglio Interregionale di Rappresentanza dell’Arma dei Carabinieri, ed una delibera dello stesso Organo, da cui si apprende che “il Coir ha deliberato “solidarieta’” esprimendo “l’auspicio” che possa “conferire” in merito alla vicenda con “il Ministro della Difesa” e sollecitando una “presa di posizione” del Cocer”.
[8] Tar Lombardia, cit.
[9] Per un approfondimento: C. Iafrate, “DIRITTI SINDACALI AL PERSONALE MILITARE: SI POTEVA NEGARE UN DIRITTO SOGGETTIVO CON MOTIVAZIONI PRIVE DI FONDAMENTI GIURIDICI?”
[10] EX SINDACALISTA FORESTALE: COCER CARABINIERI, “ALLA RIBALTA PER QUESTIONI GIUDIZIARIE ED OUTING INVOLONTARI PIUTTOSTO CHE PER LE BATTAGLIE A FAVORE DEL PERSONALE” in www.ficiesse.it, ove si leggono le seguenti dichiarazioni di un Rappresentante Militare dimissionario: “Sono bastati questi pochi mesi per capire che la Rappresentanza Militare non può e non potrà mai tutelare veramente il personale a 360°, nonostante si cerchi di sostenere il contrario”.
[11] Il prossimo 10 aprile, dopo quasi 20 anni la Corte Costituzionale tornerà ad occuparsi nel divieto assoluto di costituire o aderire ad associazioni a carattere professionale/sindacale imposto a tutti i militari: https://www.cortecostituzionale.it/schedaOrdinanze.do?anno=2017&numero=111&numero_parte=1
[12] Interrogazione a risposta scritta 4-08780, presentata da IVANA SIMEONI, mercoledì 20 dicembre 2017, seduta n.919: https://parlamento17.openpolis.it/atto/documento/id/523331