I Generali sbagliano e lo Stato paga
Un giovane carabiniere nell’agosto del 2010 si iscrisse a un partito politico, allo scopo di partecipare attivamente alla vita politica del nostro Paese.
Quando il carabiniere comunicò ai suoi superiori l’impegno politico assunto, questi avviarono nei suoi confronti un procedimento disciplinare. Al militare fù contestato di aver leso il “principio di estraneità delle forze armate alle competizioni politiche”.
Come prevede il regolamento nel corso del procedimento disciplinare intervenne un militare a difesa delle ragioni dell’incolpato. Il difensore, militare della Marina, argomentò il suo intervento sui valori fondanti e fondamentali della Costituzione, quali la partecipazione alla politica nazionale (articolo 49) e l’iscrizione ai partiti politici (articolo 98), nonché espressamente previsti anche dalla disciplina militare con limitazioni e modalità (combinazione tra gli articoli 1350 e 1483 del decreto legislativo 15 marzo 2010, n. 66 e successive modificazioni), tuttavia non riuscì ad evitare che il solito generale infliggesse al carabiniere una dura sanzione disciplinare: 5 giorni di consegna di rigore. Il prezzo per aver osato esercitare i suoi diritti politici (punizione che in passato si scontava in appositi locali di detenzione).
Dopo aver scontato la condanna, il carabiniere decise di invocare il Tribunale Amministrativo Regionale competente per difendere i suoi diritti. Il giudice adito non solo gli diede ragione ma addirittura condannò l’Amministrazione al pagamento di tutte le spese legali e processuali (euro 2.000,00, oltre agli accessori di legge). In altre parole il T.A.R. confermò la validità della tesi esposta durante la difesa e dichiarò l’illegittimità dell’azione del Comandante di corpo (il solito generale).
Dopo qualche tempo il militare che aveva difeso il carabiniere apprese che quel generale dell’Arma si era sentito minacciato dall’appassionata difesa svolta e quindi ne aveva segnalato il comportamento all’autorità giudiziaria. La Procura militare diligentemente aprì un fascicolo d’indagine contestando al povero marinaio il reato di “insubordinazione con minaccia aggravata (comma 1 dell’articolo 189 e numero 2 dell’articolo 47 c.p.m.p.)” perché “in occasione e nel corso dell’espletamento dell’attività difensiva di militare dell’Arma dei Carabinieri sottoposto a procedimento disciplinare, comunicando con più persone, prospettava un ingiusto danno al Comandante di corpo ….”. Il militare difensore aveva semplicemente detto al generale che l’incolpato non aveva commesso alcuna infrazione disciplinare ma che, invece, riteneva che l’avesse commessa chi aveva scritto il rapporto disciplinare, e si riservava di far esercitare la Costituzione in altre sedi: “sicuramente adirò la Magistratura perché così si impedisce di esercitare i diritti costituzionali. Emerge che qui non si possono esercitare i diritti costituzionali”. Non fu la solita promessa da marinaio: presentò un esposto alla Procura della Repubblica.
Il generale si sentì particolarmente offeso dal tremendo reato di “lesa maestà” tanto da invocare l’intervento della magistratura militare che tuttavia, alla fine, dispose l’archiviazione del fatto per “infondatezza della notizia di reato poiché gli elementi acquisiti nelle indagini preliminari non sono risultati assolutamente idonei a sostenere l’accusa in giudizio”. L’archiviazione ovviamente determinò il rimborso delle spese legali per oltre 1,400 euro da parte dell’amministrazione al militare che aveva subito l’interrogatorio di garanzia.
Evidentemente la decisione del giudice militare non doveva essere stata particolarmente gradita ai vertici militari tantoché, per consolarsi, dopo oltre due anni di livorosa meditazione, disposero che nei confronti di quel militare – che con la sua appassionata difesa aveva osato sfidare sua maestà, il generale – doveva comunque essere avviato un procedimento disciplinare perché «trattasi di fatto che ha determinato un giudizio penale» (ma quale giudizio penale? Suvvia, la differenza tra “procedimento” e “giudizio” è l’A B C del diritto. Se non si conosce nemmeno questo è ovvio che resta solo l’arroganza del grado. Ogni tanto però l’arroganza lascia il posto alla ragione e il procedimento disciplinare nei confronti del militare difensore è stato archiviato.).
La mancata applicazione della tutela giuridica che deriva dalla negazione dei diritti (primi fra tutti quelli sindacali) e l’errata interpretazione delle norme, sempre più spesso applicate con rigida severità solo verso il basso, destano profondo sconcerto tra i militari i cui diritti, sempre più spesso, si ritrovano ad essere ostaggio e divertimento dei generali. Un divertimento i cui costi ricadono sempre sui contribuenti. Generali a cui le massime istituzioni generalmente riservano altri trattamenti. Un esempio eclatante furono le note di stima e massima fiducia espresse da più parti al generale Ganzer dopo che i giudici dell’ottava sezione penale di Milano lo avevano condannato a 14 anni di reclusione.
La breve storia che ho voluto raccontarvi è solo una delle migliaia che restano confinate tra i muri delle caserme ma che rappresentano il vero male – un cancro – oltre che un costo, che affligge le Forze armate, soprattutto se si considera che l’elemento fondamentale per il funzionamento dell’organizzazione militare risiede nella piena consapevolezza dell’irrinunciabile necessità di operare nel rispetto delle regole dettate dal legislatore: “Giuro di essere fedele alla Repubblica italiana, di osservarne la Costituzione e le leggi e di adempiere con disciplina ed onore tutti i doveri del mio stato per la difesa della Patria e la salvaguardia delle libere istituzioni”.
Molti generali questo giuramento l’hanno dimenticato, oppure l’hanno seppellito con l’arroganza del grado. Ricordiamoglielo, se è vero che le Forze armate sono una risorsa per il Paese.
Luca Marco Comellini