Frode, condannato e degradato il generale Mancuso
È stato condannato dalla Corte militare di Appello (in riforma della sentenza di primo grado) a tre anni e due mesi il generale di brigata della Guardia di Finanza, Pierluigi Mancuso, all’epoca dei fatti comandante provinciale a Trieste. Al militare è stata inflitta anche la pena della rimozione del grado. Lo riferisce l’agenzia Agi.
Il generale con sentenza dell’ottobre 2018, era stato assolto dall’accusa di «collusione del militare della guardia di finanza con estranei per frodare la finanza». Le indagini a suo carico hanno visto la luce dopo «il riscontro di incongruenze emerse nella ricostruzione della contabilità delle due società, la Pepè s.r.l. e la Eredi di P. Mancuso s.r.l., di fatto riconducibili –secondo l’accusa – al solo socio Mancuso e solo formalmente amministrate dalla madre. Dai successivi accertamenti è emerso che, il generale, si sarebbe per anni adoperato in tutti i modi per abbattere l’imponibile dei redditi delle due società, operanti a Roma».
In particolare, secondo la tesi sostenuta dall’accusa «Mancuso faceva uso privato di strutture e beni societari, in primis l’auto dichiarata come aziendale, sempre a sua disposizione nella città di Trieste in cui, per tutti quegli anni, aveva fissato la sede dei propri interessi familiari; prelevava di continuo denaro dalle casse societarie per finalità inequivocabilmente private quali spese» in una nota catena di negozi di arredamento, «costi di parcheggio dell’auto a Trieste, acquisti da rivenditori di giocattoli e articoli per l’infanzia, pranzi e cene e soggiorni in stazioni sciistiche o località di villeggiatura in Slovenia. Il tutto, fatto artatamente confluire a titolo di spesa e costo societario di due società operanti a 700 Km di distanza».
Dalle indagini, «emergeva un operato costantemente e consapevolmente elusivo della normativa fiscale-tributaria. Venivano registrati nelle contabilità aziendali degli elementi negativi di reddito (costi) che generavano l’abbattimento della base imponibile ai fini delle imposte dirette, traducendosi in un vantaggio economico non dovuto, di valore pari alla mancata imposta versata all’erario».
Inoltre, dagli accertamenti citati dall’accusa risultano «ripianamenti fittizi, contabilizzati come movimentazioni finanziarie in entrata ma che non transitavano nel conto economico». Le indagini prima e l’istruttoria processuale poi rivisitata dalla Corte Militare d’Appello, hanno messo in luce secondo l’accusa «un meccanismo di sistematico inserimento di voci indebite nel conto economico di ciascuna delle società, tali da influire sensibilmente ai fini della determinazione del reddito di impresa dichiarato, mediante la compilazione dei Modelli
Unici puntualmente sottoscritti dal legale rappresentante delle due società, la madre dell’imputato. Sistematicamente, cioè, le due società abbattevano l’imponibile fiscale, così da generare un illecito risparmio d’imposta».
Tutte accuse respinte con decisione dalla difesa nel corso del procedimento giudiziario. Mancuso ha già anticipato che impugnerà la sentenza di condanna.
Redazione a cura il Piccolo di Trieste