Forze di Polizia, approfondimento sull’atto dovuto: il falso scandalo, le garanzie dimenticate, la politica degli slogan e la realtà della legge
«Sarebbe ora di smetterla di scandalizzarsi per il cosiddetto atto dovuto.» L’avvocato Giorgio Carta lo ha ricordato con chiarezza: ogni volta che muore qualcuno durante un intervento di polizia, l’apertura di un fascicolo è un passaggio obbligato.
Non è un’accusa, non è un marchio d’infamia: è il meccanismo che serve a fare luce, a garantire trasparenza e – paradossalmente – a proteggere gli stessi operatori delle forze dell’ordine.
Eppure, a ogni nuovo caso, la politica si straccia le vesti: indignazioni a effetto, slogan facili, social pieni di applausi. Ma la domanda vera resta quella posta da Carta: «Chi è contro l’atto dovuto, che alternative propone? Archiviare una morte con un modulo CID? Liquidare tutto con un’alzata di spalle?».
La verità è che senza questo strumento non ci sarebbe Stato di diritto, ma un buco nero di arbitrarietà.
Non è un’accusa, non è un processo mediatico, è semplicemente un accertamento tecnico e formale. Un meccanismo di trasparenza che serve a tutti: cittadini, famiglie delle vittime e soprattutto agli stessi operatori delle forze dell’ordine.
Eppure, a ogni nuovo caso, il copione si ripete: dichiarazioni indignate, politici pronti a gridare allo scandalo e a ergersi paladini delle divise. Facile, sui social, raccogliere applausi con la formula magica “atto dovuto = oltraggio alle forze dell’ordine”. Ma la verità è un’altra: si tratta di una presa in giro per chi non conosce la legge.
Indagato non vuol dire colpevole
Ricevere un avviso di garanzia non equivale a una condanna. Al contrario, significa che si diventa partecipe delle indagini con tutti i diritti di difesa. Un indagato, a differenza di un testimone, gode della facoltà di non rispondere sancita dall’art. 64 c.p.p. Un testimone deve dire la verità, pena il reato di falsa testimonianza; l’indagato può tacere, persino mentire a fini difensivi, senza rischiare sanzioni.
È una garanzia preziosa, figlia del principio “nemo tenetur se detegere”: nessuno può essere costretto a collaborare alla propria accusa. È il cuore del modello accusatorio, la traduzione processuale della presunzione di innocenza.
Il valore degli atti irripetibili
Un’altra verità scomoda: il tanto vituperato avviso di garanzia è in realtà il guardiano silenzioso dei diritti della difesa. Pensiamo agli atti irripetibili – un’autopsia, un’analisi di laboratorio, un sopralluogo – momenti in cui la prova si cristallizza per sempre. In quei frangenti la legge impone all’accusa di chiamare la difesa al tavolo: senza quell’avviso, l’indagato si troverebbe davanti a risultati già scritti, senza possibilità di replica.
Ecco perché parlare di atto dovuto come “umiliazione” delle divise è un rovesciamento grottesco della realtà. È proprio lì, in quell’istante irripetibile, che il diritto di difesa trova sostanza.
Il vero scandalo: tutele negate
C’è però un paradosso che Carta ha denunciato: lo Stato apre fascicoli per obbligo di legge, ma poi lascia soli gli operatori quando tutto si chiude con un’assoluzione. Agenti e militari, assolti dopo processi lunghi e logoranti, vedono rimborsate solo in parte le spese legali perché l’Avvocatura dello Stato invoca il contenimento della spesa pubblica.
Così chi ha agito correttamente si trova schiacciato dai debiti, mentre la politica continua a giocare alla guerra degli slogan. Questo sì è uno schiaffo alle divise.
Meno teatro, più diritti concreti
La verità è semplice: l’“atto dovuto” non è uno scandalo, è uno strumento di garanzia. Il vero scandalo è che manchino tutele concrete, economiche, psicologiche e legali per chi serve lo Stato. Il resto è rumore di fondo, utile solo a raccogliere voti.
Le divise non hanno bisogno di indignazioni a orologeria, ma di uno Stato che non le lasci sole. Tutto il resto è propaganda.
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