Difesa europea, il bottino da 1.100 miliardi: gli USA entrano in partita per non restare a mani vuote
L’Europa al bivio: più armi, più spesa, più pressione
Dal vertice NATO del 5 giugno è arrivata una constatazione lampante: i bilanci della difesa in Europa non possono più rimanere ai livelli attuali. L’erosione delle capacità dovuta agli aiuti a Kiev, la minaccia russa e la progressiva ritirata americana dal teatro europeo impongono un’accelerazione.
Obiettivo comune: 3,5% del PIL in spesa militare – in alcuni casi persino il 5% – entro il 2032. Germania, Italia, Paesi Bassi, Finlandia, Norvegia e Bulgaria hanno già annunciato rialzi record. Solo Madrid resiste, ma l’isolamento politico e le pressioni NATO rendono fragile la sua posizione.
Il maxi-mercato da 1.100 miliardi entro il 2032
Oggi le forze armate europee NATO spendono circa 430 miliardi di euro l’anno. Se la traiettoria verso il 3,5-5% del PIL sarà confermata, entro il 2032 la cifra salirà a 848 miliardi annui, con 212 miliardi destinati al solo comparto industriale.
In sette anni, ciò significa oltre 1.100 miliardi di euro in acquisizioni e R&S. Un giro d’affari quasi pari all’intero mercato statunitense nello stesso periodo. L’Europa diventa così il primo mercato unificato per la difesa al mondo.
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I colossi USA passano dalla vendita alla produzione in loco
Per decenni il modello era semplice: Washington forniva, l’Europa comprava. F-16, F-35, sistemi Patriot e HIMARS arrivavano dalle linee americane con minimi ritorni industriali locali. Ora la musica cambia.
Con i fondi UE che premiano la produzione interna e con standard tecnologici sempre più europei, colossi come Lockheed Martin, RTX, General Atomics e Anduril stanno aprendo stabilimenti, siglando joint venture e offrendo co-sviluppo pur di restare competitivi. Non più solo export: “produrre in Europa, per l’Europa” è la nuova parola d’ordine.
Non solo USA: Turchia, Israele e Corea del Sud entrano in scena
L’Europa è ormai anche campo di caccia per altri player.
- Turchia: in un decennio ha trasformato licenze occidentali in capacità autonome, dai droni Bayraktar al carro T-155 Firtina.
- Corea del Sud: partendo da tecnologie tedesche, ora esporta sottomarini KSS-III e carri K2 Black Panther anche in Europa.
- Israele: integra tecnologie proprie in partnership europee, come il sistema Trophy prodotto in Germania.
Il falso mito dell’autonomia strategica
Produzione locale non sempre significa controllo. Molti sistemi europei dipendono ancora da software, componenti critici e licenze estere.
- Missili Spike: prodotti in Germania ma con sensori e software sviluppati in Israele.
- Sistemi di artiglieria: gran parte importati (HIMARS USA, Chunmoo coreano, PULS israeliano).
- Difesa aerea: dominata dal Patriot USA, salvo rare eccezioni come il SAMP/T franco-italiano.
- Pattugliatori marittimi: P-8 Poseidon Boeing per la maggioranza dei Paesi NATO europei.
Risultato: flotte e capacità vulnerabili a embarghi o veti politici.
Il dilemma: efficienza oggi o resilienza domani
Le joint venture garantiscono tempi rapidi e ritorni economici immediati, ma mantengono una dipendenza strutturale da fornitori extra-UE. Nel lungo termine, questo modello rischia di sabotare la creazione di un vero complesso industriale-militare europeo capace di competere globalmente.
Conclusione: un esercito europeo… senza Europa?
Il maxi-riarmo europeo è un’occasione storica e un’enorme calamita per capitali e tecnologie. Ma se il cuore tecnologico resterà estero, l’Europa costruirà una potenza militare senza autonomia, incapace di agire senza il via libera di Washington, Seul o Ankara.
Il paradosso è evidente: spendere di più non significa essere più liberi. E in questo gioco, gli Stati Uniti e altri attori globali sembrano averlo capito meglio degli stessi europei.
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