EditorialeGeopolitica

Deterrenza o propaganda? Quando un volo diventa una crisi globale

Ritorno al futuro della deterrenza

Chi pensa che i bombardieri russi Tu-95 “Bear” siano solo vecchie carcasse sovietiche, non ha capito il messaggio. Ogni volta che quelle eliche a turbina si affacciano sull’ADIZ dell’Alaska, NORAD lancia i suoi caccia e il mondo si ferma a guardare. È successo ancora a settembre: due “Bear” scortati da Su-35 sono stati intercettati da F-16 ed E-3 americani. Nessuna violazione dello spazio sovrano, tutto in acque internazionali. Ma il comunicato del Comando nordamericano ha fatto il giro del pianeta in poche ore, rilanciato come se fosse l’inizio di una nuova crisi dei missili.


Quando la normalità diventa eccezione

Negli anni Settanta era routine: venti, trenta intercettazioni l’anno. Oggi, con una dozzina di episodi nel 2024 e nove nei primi mesi del 2025, siamo ben sotto i picchi della Guerra Fredda. Ma la percezione è ribaltata: ciò che era ordinario ora diventa eccezionale. Il meccanismo è semplice: basta una nota NORAD e subito rimbalza su agenzie, social e talk-show. Il rischio? Che l’opinione pubblica creda che un Tu-95 a 80 miglia dalla costa sia già un preludio alla guerra.


Mosca e la liturgia della potenza

Dal 2007, quando Putin ha annunciato il ritorno delle pattuglie strategiche, la Russia ha resuscitato l’intera liturgia della deterrenza a lungo raggio. I “Bear”, i Tu-142 marittimi, i vecchi Il-20 da ricognizione elettronica, affiancati da MiG-31 e Su-35, non servono solo a volare: servono a farsi vedere. Addestramento, segnalazione politica, test dei radar occidentali. Una cartolina di Mosca spedita a Washington ogni volta che la tensione sale.


La risposta americana: specchio contro specchio

Dall’altra parte gli Stati Uniti non restano a guardare. Nel 2020 hanno fatto sorvolare i B-52 e i B-1B sopra il Mar di Ochotsk, il cuore sensibile della Flotta del Pacifico russa. La risposta di Mosca? Decollo immediato di Su-35 e MiG-31 per scortare i bombardieri americani. Uno schema che ricalca alla perfezione ciò che accade sopra l’Alaska. La deterrenza funziona a specchio: quello che fai tu, lo faccio io.


Il rischio non è nei cieli, ma sulla terra

Certo, i rischi operativi ci sono: due jet che volano a poche decine di metri, con equipaggi sotto pressione, non sono mai un affare privo di pericoli. L’abbattimento dell’U-2 di Gary Powers nel 1960 resta il promemoria che l’incidente è dietro l’angolo. Ma il vero pericolo oggi non è la collisione a 30 mila piedi: è la narrazione a terra. Quando i media spacciano per “violazione” ciò che è solo un volo in ADIZ, quando i titoli urlano “escalation” senza spiegare le regole del gioco, il rischio di isteria politica supera quello delle pale di un Tu-95.


L’artico come specchio del mondo

Non è un caso che la partita si giochi proprio sull’Artico. Le rotte polari sono la scorciatoia naturale per bombardieri e missili, ma anche il palcoscenico perfetto: isolato, sorvegliato, simbolico. Un teatro in cui mostrare muscoli senza rischiare invasioni reali. In più, la regione custodisce risorse e nuove rotte marittime che fanno gola a tutti. Il silenzio degli anni Novanta è finito per sempre: oggi l’Artico torna a essere una delle linee calde della geopolitica globale.


Paura come arma

Gli aerei russi non violano cieli sovrani, né i B-52 americani sfondano i confini di Mosca. Eppure ogni intercettazione diventa un atto politico. La sostanza tecnica è chiara: siamo tornati ai livelli di pattugliamento della competizione tra potenze. Ma a cambiare è il megafono mediatico. Il vero carburante di questa nuova Guerra Fredda 2.0 non è il kerosene dei “Bear”, è la paura raccontata — e spesso gonfiata — da chi ha interesse a trasformare la routine in minaccia.


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