Dalla Chiesa, dopo 37 anni un giudice ordina che i figli del generale ucciso siano risarciti dallo Stato
Non solo non c’è prescrizione, ma 37 anni dopo i figli del generale Carlo Aberto Dalla Chiesa, ucciso il 3 settembre 1982 da Cosa Nostra a Palermo, devono essere risarciti dallo Stato per le sofferenze patite per la morte del padre con la cifra massima prevista. Una sentenza, quella della II sezione della Corte d’appello di Milano, che ribalta il verdetto di primo nel 2018. Il ministero dell’Interno, che gestisce un “Fondo di rotazione per la solidarietà alle vittime dei reati di tipo mafioso” (istituito nel 1999), aveva negato l’accesso fondo perché erano trascorsi i 10 anni previsti per intentare una causa civile e si era visto dare ragione quando chiedeva che il risarcimento venisse addebitato solo al boss condannato in via definitiva per la strage di via Carini nel maggio del 2006: ovvero Calogero Ganci, che però è nullatenente.
Ai tre figli, Nando, Rita e Simona, il Viminale, come riferisce il Corriere della Sera, dovrà risarcire 400mila euro. La corte ritiene che i figli del generale “in età ancora giovane abbiano subito gravi sofferenze in seguito alla tragica perdita del padre eminente esponente delle istituzioni e ineludibile punto di riferimento e di impegno sociale per tutta la famiglia”; e abbiano dovuto affrontare “l’irreversibile distruzione del sistema di vita basato sull’affettività e sulla condivisione dei rapporti reciproci, sostituiti inconsultamente da vicende mediatiche non ricercate e potenzialmente devastanti”. Ed è anche in considerazione anche “dell’efferatezza del crimine” e della “risonanza mediatica” che il risarcimento viene quantificato in 400mila euro ciascuno. Per i giudici i tre figli devono essere risarciti anche “l’ampia fascia temporale richiesta per identificare i colpevoli, i prolungati stati di tensione e pressione emotiva subìti”.
I giudici civili milanesi, inoltre, escludono che l’azione dei figli di Dalla Chiesa, tutelati dagli avvocati Giuseppe Fornari e Maurizio Orlando, fosse già prescritta: non avrebbero potuto chiedere l’acceso al “Fondo” prima poiché non avevano i requisiti necessari richiesti dalla legge. Non solo: la Corte d’Appello osserva che, “in assenza di una norma che specificatamente impedisca al danneggiato di agire nel medesimo giudizio contro l’autore del reato, nulla osta che il “Fondo” sia condannato in solido con il reo”, e “anzi ciò risponde a minimali esigenze di economia processuale» perché «per tutti agevola la difesa in unico contesto”. Per l’omicidio del generale trucidato con la moglie Emanuela Setti Carraro e l’agente di scorta Domenico Russo, il 7 marzo 2003 era stato condannato, in concorso con Giuseppe Lucchese, e poi dal ’96 collaboratore di giustizia – Raffaele Ganci, con sentenza che (divenuta definitiva l’ 11 maggio 2006) riconosceva nel contempo il risarcimento dei danni affidato a un separato giudizio civile, salvo una provvisionale di 60mila euro. “In assenza di una norma che specificatamente impedisca al danneggiato di agire nel medesimo giudizio contro l’autore del reato, nulla osta che il “Fondo” sia condannato in solido con il reo”, e motiva la corte “anzi ciò risponde a minimali esigenze di economia processuale» perché “per tutti agevola la difesa in unico contesto”.
Redazione Il Fatto Quotidiano