Carabinieri: Tenente Colonnello arrestato, congedato e reintegrato dal TAR: “La commissione di disciplina si è basata solo sulle ipotesi accusatorie della Procura”
L’ex comandante provinciale dell’Arma a Teramo, Giorgio Naselli, coinvolto tre anni fa nell’ inchiesta Rinascita Scott, è stato reintegrato, nel suo ruolo e grado di Tenente Colonnello dei Carabinieri. In occasione dell’operazione anti ‘ndrangheta portata avanti dalla Procura di Catanzaro finì agli arresti e attualmente è sotto processo. Tra i reati allora contestati: rivelazione di segreto d’ufficio, abuso d’ufficio aggravato dalle finalità mafiose e utilizzazione del segreto d’ufficio.
Nel 2021la Direzione Generale del Personale Militare emette un provvedimento con cui il Tenente Colonnello cessa dal servizio permanente e viene iscritto d’ufficio nel ruolo dei militari di truppa dell’Esercito Italiano, senza alcun grado. L’ufficiale propone dunque ricorso al TAR.
La reintegra è stata decisa dal Tar del Lazio poiché nel corso dell’istruttoria erano state annullate prima le ordinanze cautelari e poi erano cadute tutte le accuse d’abuso d’ufficio, dell’aggravante mafiosa e dell’utilizzazione del segreto d’ufficio per favorire elementi della ‘ndrangheta. Esaminiamo nello specifico alcuni punti della sentenza.
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LA SENTENZA DEL TAR
Nell’istruttoria documentale il TAR ha confermato quanto dedotto dal ricorrente in ordine al fatto che l’Amministrazione ha tratto gli elementi contestati e ritenuti rilevanti in sede disciplinare esclusivamente dalla ordinanza di applicazione della misura cautelare personale, che viene sostanzialmente trascritta nel provvedimento disciplinare.
Si osserva, in effetti, una sostanziale coincidenza tra gli addebiti esposti nel provvedimento che ha inflitto la perdita di stato ed i capi di imputazione a carico del ricorrente come formulati nella ordinanza di applicazione della misura cautelare penale.
“Va osservato – sottolinea il TAR – che tale “modus procedendi”, di per sé e in generale, non può dirsi illegittimo perché l’Autorità disciplinare può certamente considerare e valutare le emergenze fattuali raccolte in sede di procedimento penale (senza dovere, peraltro, attendere la sentenza definitiva), soprattutto ove esse siano state positivamente valutate dal GIP ai fini del provvedimento di rinvio a giudizio oppure per l’adozione di una misura cautelare.”
Non può poi negarsi che, nella specie, nei capi di imputazione formulati in sede penale e riprodotti in sede disciplinare (nell’atto di contestazione degli addebiti, nella relazione dell’Ufficiale inquirente e, infine, nel provvedimento di irrogazione della sanzione) sembravano emergere elementi di elevata gravità tali da rappresentare condotte la cui rilevanza disciplinare, oltre che penale, appare evidente: trattasi infatti di azioni che, se effettivamente poste in essere, non potrebbero essere tollerate, in quanto idonee a mettere in crisi il rapporto fiduciario che deve sussistere e mantenersi saldo tra l’Istituzione e l’Ufficiale dell’Arma.
Tuttavia, nel caso in esame, il Collegio ha osservato, condividendo sul punto le censure del ricorrente, un oggettivo deficit istruttorio e una palese insufficienza della motivazione del provvedimento finale – non colmata, invero, neanche dal contenuto degli atti endo-procedimentali – che si palesa nella pretermissione delle valutazioni (fattuali e giuridiche) espresse dalla sentenza della Corte di Cassazione.
La sentenza, quindi, doveva entrare necessariamente nel perimetro del materiale che l’Autorità disciplinare avrebbe dovuto attentamente esaminare, anche perché la sentenza era stata ampiamente segnalata dal difensore dell’incolpato, sia con la memoria procedimentale che in sede di discussione dinnanzi alla Commissione di disciplina.
La Corte Suprema di Cassazione, infatti, in accoglimento del ricorso dal Tenente Colonnello, ha annullato senza rinvio l’ordinanza del Tribunale del Riesame di Catanzaro e quella presupposta del GIP di Catanzaro di applicazione della misura cautelare, dapprima, della custodia cautelare in carcere e, poi, degli arresti domiciliari, in relazione ai reati contestati al militare, disponendo l’immediata liberazione di quest’ultimo, poi effettivamente ordinata, all’indomani del dispositivo, dalla Procura Generale della Corte di Cassazione il 18.7.2020.
La sentenza, in particolare, ha valutato insussistente il reato di abuso d’ufficio, sulla scorta delle conversazioni telefoniche avute dal ricorrente, osservando come quest’ultimo al di là di una vaga e generica disponibilità (per così dire “di cortesia”) non si è mai attivato per assecondare le richieste dell’interlocutore né tantomeno ha mai compiuto alcuna condotta fattiva ovvero ha rallentato l’emissione del provvedimento conclusivo del procedimento prefettizio, in relazione al quale gli erano state sollecitate delle informazioni.
La Suprema Corte, poi, ha escluso anche l’aggravante di cui all’art. 416-bis.1 c.p., ritenendo la contestazione di essa apparente e contraddittoria, poiché nella sostanza non fondata su alcun elemento concreto. Si legge infatti nella sentenza (par. 4) che “…è evidente che la motivazione (dell’ordinanza del 14/01/2020 del Tribunale del riesame di Catanzaro, ndr.) ricorre ad automatismi non consentiti e non chiarisce né dimostra che il ricorrente fosse consapevole della volontà del […] di favorire, curando la pratica del […], il […]e che in tal modo agevolasse anche la cosca a lui facente capo, nonché, in via mediata, la cosca alleata […-…], cui era vicino il […], e che il ricorrente avesse condiviso tale obiettivo e lo avesse fatto proprio…”
Da ultimo, si osserva anche che la Suprema Corte di Cassazione ha escluso la sussistenza dell’ipotesi più grave del reato previsto dall’art. 326 c.p., quella di cui al comma 3, che punisce l’utilizzazione del segreto d’ufficio.
Resta dunque ferma – secondo la sentenza dei giudici amministrativi – la sola “rivelazione di segreto d’ufficio” avendo il ricorrente (da quanto risulta, allo stato, dall’indagine penale) comunicato al noto professionista che conosceva personalmente da molti anni e su richiesta di questi, notizie riservate afferenti ad un procedimento amministrativo in corso e che interessava un cliente di detto professionista.
Da tutto ciò il Collegio ha dedotto che la Commissione di disciplina, a seguito di un così palese ridimensionamento della posizione dell’imputato in sede penale, derivante da una motivata valutazione del Giudice di Legittimità, non poteva più limitarsi, come di fatto è avvenuto, ad una motivazione “per relationem” basata soltanto sugli esiti delle indagini preliminari del procedimento penale, né fondare le sue conclusioni soltanto sui contenuti una ordinanza cautelare nelle more revocata.
L’Amministrazione resistente, nel momento in cui motiva la massima sanzione irrogata al ricorrente riproducendo, in modo pressoché invariato, i capi di imputazione “originari” che avevano condotto alla misura cautelare mostra di non dare alcun rilievo alla puntuale disamina del Giudice di Legittimità e, nel contempo, di non avere svolto alcuna istruttoria o delibazione autonoma sui fatti imputati, su cui fondare (in ipotesi) il proprio giudizio divergente rispetto a quello della Suprema Corte.