Caporal Maggiore chiedeva finanziamenti a nome del Comandante con documenti falsificati. L’ufficiale scopre la truffa, condannato a 8 mesi di reclusione
Il Tribunale Militare di Napoli condannava un primo caporal maggiore capo scelto, alla pena di mesi otto di reclusione militare per tentata truffa aggravata. Scriveva il Tribunale Militare che dall’istruttoria era emerso che l’imputato, tra il settembre e il novembre 2014, aveva posto in essere un meccanismo truffaldino strutturato; egli aveva avuto accesso al sistema informatico del Centro Rischi Intermediazione Finanziaria ed aveva raccolto informazioni su diversi ufficiali del I Reggimento Bersaglieri di Cosenza, verificando la qualità di pagatori degli stessi; poi, in particolare, aveva predisposto una serie di documenti falsi che utilizzava per chiedere finanziamenti facendo figurare, quale sottoscrittore del contratto, uno degli ufficiali e cioè il Comandante del Reparto.
Nello specifico, nell’abitazione dell’imputato erano state ritrovate tre richieste presso il Centro Rischi Intermediazione Finanziaria relative all’ufficiale menzionato e si era dedotto che, accertata la qualità di buon pagatore, — egli aveva predisposto una carta di identità falsa del predetto, utilizzando il documento di una persona residente da anni all’estero; in seguito, sempre tramite esibizione di falsa documentazione, aveva ottenuto il rilascio di schede SIM da compagnie telefoniche fornendo le stesse quale recapito telefonico per le società finanziarie che dovevano erogare i vari finanziamenti richiesti a nome del Comandante, così da poter essere lui contattato in luogo della persona offesa.
LEGGI ANCHE DISOBBEDIENZA AGGRAVATA: ASSOLTO CAPORALE MAGGIORE CAPO SCELTO PERCHE’ IL FATTO NON COSTITUISCE REATO
I contratti di finanziamento non erano andati a buon fine poiché, dopo la richiesta formale di essi, gli operatori delle finanziarie erano riusciti a contattare il Comandante, il quale aveva disconosciuto le firme apposte sulle richieste e denunziato la falsità dei documenti presentati, l’intestazione delle schede telefoniche e un indirizzo di posta elettronica fornito. Il consulente tecnico grafico del P.M. aveva effettuato una comparazione sulle firme apposte sui documenti contraffatti e sulla grafia di documenti sicuramente riconducibili all’imputato ed aveva quindi concluso che quelle firme false erano state apposte con elevatissima probabilità (pari a circa il 90%) dall’imputato.
Sulla base della documentazione rinvenuta nelle sua casa e delle riconducibilità a lui della grafia utilizzata sui falsi documenti, egli veniva dichiarato responsabile di truffa militare tentata.
Interponeva appello l’imputato, contestando la responsabilità nel complesso meccanismo truffaldino per impossibilità di accedere a tanti dati personali nonché la stessa riconducibilità delle firme apposte sulle richieste (poiché il consulente tecnico del P.M. le aveva ricondotte principalmente ad un correo giudicato separatamente) e sottolineando che in nessun documento contraffatto vi era la fotografia dell’imputato (per cui egli non avrebbe potuto servirsene) nonché contestando comunque l’idoneità degli atti. 3. Con sentenza in data 13/12/2017 la Corte Militare di Appello confermava la condanna di primo grado.
La Corte di Cassazione ha respinto il ricorso. Infatti La Corte territoriale non ha trascurato di considerare le giustificazioni fornite dal ricorrente, ma le ha valutate come non credibili: infatti, da un lato ha sottolineato che l’elemento cruciale nella ricostruzione della vicenda criminosa era il rinvenimento a casa del ricorrente di documentazione dal significato inequivoco (carta di credito intestata al Comandante del Reparto, codici PIN, comunicazioni della Fineco indirizzate al predetto, tessera sanitaria e codici fiscali del Comandante del Reparto, un appunto recante il nome dell’ufficiale con accanto i numeri di telefono forniti alle società finanziarie); d’altro lato, ha evidenziato che quel materiale – già di per sé significativo – assumeva una valenza di ulteriore rilievo se posto accanto ad altre circostanze che legavano il ricorrente alla complessa manovra truffaldina posta in essere (le sue richieste al Centro Rischi Intermediazione Finanziaria relative all’ufficiale, scheda telefonica intestata a persona che ignorava la vicenda, documento di identità apparentemente del Comandante, ma recante la fotografia di altra persona).
Sostiene il ricorrente che detti elementi provavano, al più, una attività preparatoria, ma non anche un tentativo delittuoso penalmente rilevante poiché dagli atti non emergerebbe una chiara dimostrazione della direzione teleologica della volontà dell’agente per l’assenza del requisito dell’univocità e della idoneità dell’azione: si tratta di una argomentazione non accoglibile, giacchè, in ordine al concetto di idoneità degli atti, l’opinione maggioritaria è alquanto compatta nel ritenere che un atto si può ritenere idoneo quando, valutato ex ante ed in concreto (cd. criterio della prognosi postuma), ossia tenendo conto di tutte le circostanze conosciute e conoscibili e non di quelle oggettivamente presenti e conosciute dopo, il giudice, sulla base della comune esperienza dell’uomo medio, possa ritenere che quegli atti – indipendentemente dall’insuccesso determinato da fattori estranei – erano tali da ledere, ove portati a compimento, il bene giuridico tutelato dalla norma violata.
Ne deriva – secondo la Suprema Corte – che il tentativo è punibile non soltanto quando l’esecuzione è compiuta ma anche quando l’agente ha compiuto uno o più atti (non necessariamente esecutivi) che indichino, in modo inequivoco, la sua volontà di voler compiere un determinato delitto.