Ammiraglio De Giorgi “In Libia continua a regnare il caos. L’Italia, in tutto questo, che cosa sta facendo?”
La situazione in Libia continua a essere infuocata. Turchia da un lato ed Emirati Arabi Uniti e Russia dall’altro, si contendono sempre più aspramente la partita del Mediterraneo sulle spalle della Libia, in guerra civile ormai dal 2011 e ben lontana dal trovare un equilibrio politico. E in tutto questo l’Italia continua a “pedalare senza catena”, come abbiamo visto con il recente rinnovo del Memorandum di cui ho parlato la scorsa settimana.
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Facciamo, però, un passo indietro per dare un quadro più ampio che abbracci la situazione dell’ultimo mese. Il 5 luglio scorso, infatti, con il bombardamento dell’area attorno alla base aerea di al-Watiya, la più grande installazione militare del Nordafrica, è stata gettata benzina sul fuoco in una situazione già gravemente compromessa. Dal governo di Tripoli (gna), l’unico riconosciuto dalle Nazioni Unite, è trapelato che gli artefici dell’attacco molto probabilmente sono stati aerei emiratini (alleati di Haftar) che con quest’offensiva hanno voluto lanciare un segnale sia ad al-Sarraj che alla Turchia sua alleata per far capire che la partita non è chiusa. Del resto la Turchia, che si muove agilmente e sempre più incisivamente in Tripolitania e che accarezza l’idea di allargare la sua area d’influenza sul cosiddetto “oil crescent” verso est troverà sempre maggiore opposizione a parte dell’Egitto, che considera la Cirenaica una sua provincia.
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Ecco quindi che il bombardamento di al-Watiya del mese scorso non è stato soltanto un episodio in grado di interferire con l’evoluzione militare sul piano tattico, ma è servita come segnale politico forte nei confronti di Erdogan. Nei giorni precedenti all’attacco, infatti, «nella base erano arrivati i sistemi antiaerei Hawk turchi, anche per segnalare che la base era da considerarsi sotto la tutela diretta della Turchia e non di una delle tribù del campo di Al Serraji. In quegli stessi giorni una folta delegazione militare, guidata dal ministro della Difesa turco, era andata a Tripoli e Misurata per parlare di futura presenza turca al fianco del gna. Ed è inevitabile non ricollegare a questi passaggi l’attacco ad al Watiya (su cui ci sono più che sospetti di un coinvolgimento anche egiziano, diretto o logistico).
Anche l’Onu, sebbene sia stato sinora del tutto ininfluente in Libia non potendo contare sull’appoggio degli Stati Membri permanenti del Consiglio di Sicurezza (gli USA e la Cina indifferenti, la Russia e la Francia sostenitrici del Generale ribelle Haftar) non ha saputo far altro che tentare di riportare l’attenzione della comunità internazionale sulla situazione insostenibile in Libia tramite le parole dell Segretario Generale António Guterres: «Il tempo non è dalla nostra parte in Libia. Il conflitto è entrato in una nuova fase, con le interferenze straniere che hanno raggiunto livelli senza precedenti, anche nella fornitura di attrezzature sofisticate e per numero di mercenari coinvolti nei combattimenti. […] Da quando il Consiglio ha discusso l’ultima volta della Libia a maggio, le unità militari del Governo di Accordo Nazionale (gna) riconosciuto dall’Onu si sono, con un significativo sostegno esterno spinte verso est nella loro offensiva contro la cosiddetta Libyan National Army (lna) di opposizione, comandato da Khalifa Haftar. La situazione in prima linea è stata per lo più tranquilla dal 10 giugno, con le forze del gna a 25 chilometri dalla città costiera mediterranea di Sirte. Ma le Nazioni Unite sono molto preoccupate da un allarmante accumulo di forze militari attorno a quella città, nonché da un alto livello di interferenze straniere dirette, in violazione dell’embargo sulle armi delle Nazioni Unite, delle risoluzioni del Consiglio di sicurezza e degli impegni presi alla Conferenza internazionale di Berlino sulla Libia sei mesi fa»[1]. Non credo che ci possano essere parole che più di queste siano una sorta di ammissione di fallimento. Le interferenze straniere, le violazioni dell’embargo di armi e così via sono chiaramente, sebbene non si facciano mai i nomi, riferimenti a Turchia e Russia in particolare.
In tutto questo, poi, non dimentichiamo che ad oggi sono circa 400 mila gli sfollati all’interno della Libia e che i così detti “campi di accoglienza” presenti in questo Paese altro non sono che dei luoghi dell’orrore da cui si cerca disperatamente di scappare, generando l’altro grosso dramma di questa situazione, quello dei migranti. Lo stesso Papa Francesco, a sette anni dal suo discorso a Lampedusa, nella messa straordinaria che ha tenuto nell’anniversario di quel giorno ha preso ferma posizione al riguardo raccontando di come arrivi tramite i media una sorta di versione edulcorata di quello che capita davvero a quelle donne e a quegli uomini [2].
L’Italia, in tutto questo, che cosa sta facendo? Nulla, o quasi nulla, e quel poco che fa non è in grado di portare frutti. Abbiamo già avuto modo di analizzare la questione memorandum, ma proprio in questi ultimi giorni si è verificato l’ennesimo episodio che fa comprendere quanto il nostro peso specifico nella questione libica si stia assottigliando. Il 30 luglio, infatti, un Hercules C130 salpato da Pisa e giunto a Misurata con 40 soldati è stato respinto da al Sarraj. Il governo di Tripoli ha negato lo sbarco indicando come motivazione la mancanza di alcuni documenti, ma sembra che questa sia stata solo una scusa per celare le vere motivazioni, tutte politiche. Del resto, l’assenza di una linea politica coerente e unitaria da parte dell’Italia non può che aumentare l’irrilevanza italiana in Libia. Invece di inserirci nel tessuto sociale ed economico libico, offrendo tramite le nostre truppe un addestramento militare e un aiuto concreto dal punto di vista organizzativo del Paese che si sarebbe rivelato fruttuoso per tutti, la nostra presenza nel territorio libico si è ridotta a quella di attori interessati alla limitazione dei flussi migratori. Senza contare che l’inazione italiana ha di fatto gettato Tripoli nelle braccia di Ergodan. Sarraj, infatti, aveva chiesto un aiuto militare al nostro Paese per arginare le truppe di Haftar e la presenza dei terroristi in Libia, ma di fronte ai nostri continui tentennamenti e scoraggiato dai nostri avvicinamenti ad Haftar, si è rivolto verso la Turchia, interlocutore più credibile e incisivo di noi.
Ammiraglio (a) Giuseppe De Giorgi
[2] https://www.agi.it/cronaca/news/2020-07-08/papa-libia-campi-detenzione-9099253/