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Abbassate le note al maresciallo che denunciò l’umiliazione subita dalla carabiniera

A Pavullo, la giustizia interna all’Arma mostra le sue contraddizioni. Un comandante marchia la fronte di una giovane carabiniera, un gesto che gli costa otto mesi di lavori socialmente utili. Ma è il maresciallo che ha denunciato l’abuso a pagare il prezzo più alto: una valutazione compromessa che ne mina la carriera. Una vicenda che ora approda al TAR, dove si deciderà se denunciare un’ingiustizia sia un dovere o una colpa da punire.

Otto Mesi al Capitano

Il Tribunale militare di Verona ha emesso una sentenza che ha fatto molto discutere: Il capitano, accusato di aver marchiato una carabiniera e ora in servizio a Teramo, ha ottenuto otto mesi di lavori socialmente utili. La pena, unita a un risarcimento, gli ha evitato il processo per ingiuria a inferiore di grado.

La Voce di chi non Tace

Il segretario generale di USMIA Carabinieri Carmine Caforio e i suoi hanno tessuto una rete di protezione attorno alla giovane militare umiliata, trasformando la solitudine di una vittima nella forza di chi sa di non essere sola. “Abbiamo agito con discrezione e professionalità”, racconta Caforio con la pacatezza di chi sa di combattere una battaglia giusta, nascondendo dietro parole misurate una determinazione d’acciaio. Un intervento che va oltre il semplice supporto legale, diventando testimonianza di come il coraggio di denunciare possa e debba trovare alleati pronti a sfidare le logiche del potere. In un’Arma dove il silenzio rischia di diventare complice, il sindacato ha scelto di dare voce a chi altri avrebbero voluto muta.

Il Prezzo della Verità?

Come un fulmine in un cielo sereno di “eccellenti” valutazioni, si abbatte la vendetta silenziosa del sistema su chi ha “osato” parlare. Il maresciallo, colpevole solo di aver difeso una giovane collega dall’umiliazione, scopre sulla propria pelle il costo del coraggio. La firma del capitano, confermata dal timbro del Comando Provinciale dopo il ricorso, trasforma un atto di giustizia in una condanna professionale.

Quanto vale davvero la tutela di chi segnala abusi nelle forze dell’ordine? Le norme sulla protezione dei whistleblower, celebrate sulla carta, si infrangono contro muri di gomma e ritorsioni mascherate da “valutazioni oggettive”. Un messaggio silenzioso ma chiaro: chi rompe le fila rischia di restare solo, schiacciato dagli ingranaggi di una macchina che ancora fatica a metabolizzare il concetto di autodenuncia.

La Giustizia che non Premia il Silenzio

M non si piega il maresciallo e porta la sua verità nelle aule del TAR, dove i numeri di una valutazione svilita dovranno confrontarsi con anni di servizio esemplare. Una battaglia che trascende il singolo caso, trasformandosi in simbolo di resistenza contro un sistema che sembra premiare il silenzio e punire il coraggio. La giustizia amministrativa si trova ora a dover sciogliere un nodo gordiano: decidere se in un corpo che dovrebbe incarnare la legalità, sia accettabile che la verità diventi colpa e il coraggio castigo. E mentre si prospetta all’orizzonte il coinvolgimento dell’autorità anticorruzione, la vera domanda rimane sospesa nell’aria: in un’istituzione che dovrebbe proteggere chi denuncia, come può la rettitudine trasformarsi in una macchia sulla carriera?

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