Carabiniere morto nel 1987, ergastolo per 2 colleghi
Un caso rimasto nell’ombra per decenni
Aveva solo 21 anni, Giovanni Minguzzi, carabiniere di leva presso la caserma di Bosco Mesola, quando venne rapito nella notte tra il 20 e il 21 aprile 1987. Dopo dieci giorni di angoscia, il suo corpo fu ritrovato legato a una grata e riverso nel fiume Po di Volano, il 1° maggio di quello stesso anno. Per lungo tempo, quella morte rimase senza colpevoli: l’inchiesta si arenò e nel 1996 venne archiviata, lasciando la famiglia senza risposte.
Oggi, dopo trentotto anni di attesa, è arrivato il verdetto che segna una svolta radicale. La Corte d’Assise d’Appello di Bologna ha condannato all’ergastolo due ex carabinieri, Orazio Tasca e Angelo Del Dotto, accusati di sequestro di persona a scopo di estorsione e dell’omicidio di Minguzzi. Una decisione che ribalta l’assoluzione pronunciata in primo grado a Ravenna.
Le richieste di riscatto e il dramma della famiglia
Poche ore dopo la scomparsa, i rapitori contattarono i familiari di Giovanni: una decina di telefonate, sempre con lo stesso obiettivo — un riscatto da 300 milioni di lire. Secondo l’accusa, il giovane fu ucciso quasi subito, perché aveva riconosciuto i suoi carnefici.
La madre, Rosanna Liverani, oggi 92enne, e i fratelli Gian Carlo e Anna Maria hanno seguito passo dopo passo la battaglia giudiziaria, senza mai mancare a un’udienza. In aula erano presenti anche al momento della sentenza, a suggellare una vicenda segnata da un dolore incommensurabile ma anche da una tenacia ferrea.
Gli imputati e il groviglio di crimini
Sul banco degli imputati c’erano tre persone: oltre a Tasca e Del Dotto, anche l’idraulico Alfredo Tarroni, la cui assoluzione è stata però confermata. L’ombra dei tre, ex militari di stazione ad Alfonsine, era già caduta su un altro episodio drammatico, avvenuto il 21 luglio 1987: la morte del 23enne carabiniere Sebastiano Vetrano, colpito a Taglio Corelli durante una sparatoria che portò al loro arresto in flagranza. In quell’occasione, i tre cercavano di recuperare una valigetta con 150 milioni di lire, frutto del ricatto all’imprenditore Roberto Contarini.
E proprio quel caso si è rivelato un tassello fondamentale per la svolta nell’omicidio Minguzzi. Durante il processo d’appello, un’analisi fonica ha rivelato una forte compatibilità tra la voce di Tasca e quella dell’uomo che aveva telefonato alla famiglia nel 1987: lui stesso ha ammesso di essere stato dietro al ricatto Contarini, un dettaglio che ha acceso una luce nuova sul passato.
Le indagini riaperte dopo decenni
La riapertura dell’inchiesta risale al 2018, grazie a un esposto della famiglia. La prima indagine aveva mostrato falle e omissioni, che solo con nuove tecnologie e approfondimenti investigativi sono state colmate. Così, dopo quasi quattro decenni, i fili della memoria e della giustizia si sono riallacciati.
Una sentenza che pesa come un macigno
Due ergastoli, dopo una vita intera trascorsa in attesa: la sentenza della Corte d’Assise d’Appello di Bologna mette un punto fermo in una delle vicende più oscure della cronaca italiana degli anni Ottanta.
Non si tratta solo di un risultato giudiziario: è il riconoscimento tardivo della verità sul destino di un giovane carabiniere che aveva dedicato la sua vita allo Stato, e che proprio da uomini in divisa — secondo la corte — fu tradito e assassinato.