IO POLIZIOTTO, VI RACCONTO LA MIA GIORNATA TRA I MIGRANTI
Il Giornale pubblica la lettera inviata al Sap, il sindacato di polizia, da un agente in servizio a Cagliari. Il poliziotto racconta in prima persona quello che accade quotidianamente a chi si occupa per servizio di gestire l’emergenza immigrazionenel nostro Paese.
Ieri sera sono andato a letto presto, oggi è previsto uno sbarco. L’ennesimo: solo due giorni fa ne abbiamo vissuto un altro: la nave è arrivata alle 5 del mattino al porto e sono rientrato a casa 24 ore dopo. Magari oggi andrà meglio.
Sono le 5 e il sole non è ancora spuntato nel cielo limpido, oggi sarà una giornata di sole, e io sono già in ufficio. Lavoro con i migranti durante gli sbarchi e mi occupo di tutto ciò che concerne la loro accoglienza e i trasferimenti nei Cara.
Sì, sono un poliziotto.
Sono le 6, siamo arrivati al porto. Fa già caldo, ma ogni tanto si alza un vento fresco che mi accarezza la pelle. Le tende della Protezione civile sono ancora lì da ieri, svettano nelle prime luci dell’alba. Questi luoghi mi sono familiari, sono diventati mio malgrado le succursali della Questura.
Ecco la nave, sta arrivando, la vedo all’orizzonte. Pian piano si avvicina ed entra nel porto e i migranti iniziano a scendere. Prima donne e bambini, come di consueto. Per chi come me è padre, vedere quei fagottini già colpiti dalla sofferenza è un pugno al cuore; i loro sguardi innocenti, i loro sorrisi sinceri…
Le pratiche di accoglienza sono lunghe e lente, anche perché siamo in pochi, ma la «macchina» funziona abbastanza bene.
Comincia a fare caldo.
Sotto le tende blu funzionano solo due ventilatori, ma muovono aria calda e con la mascherina a volte diventa difficile respirare. L’acqua ce la fornisce la protezione civile, così come il caffè, ma il caldo asfissiante, con il passare delle ore, aumenta.
Oggi grazie alle segnalazioni di alcuni migranti abbiamo individuato 13 presunti scafisti, ma a volte non ci riusciamo: è difficile farsi capire da chi arriva qui, spaventato e impaurito.
Sono le 3 del pomeriggio: il caldo adesso è insopportabile. Mangio un panino mentre continuo a lavorare, davanti al computer. Non posso fermarmi, siamo in pochi e siamo esausti: prima si finisce e meglio è, per tutti. Ma sento le ultime forze abbandonarmi, la spossatezza e la stanchezza stanno quasi avendo la meglio…
No, mi dico, devo resistere. Non fosse altro per loro, per queste persone disperate che hanno appena affrontato un viaggio disumano e non meritano di restare ancora qui ad aspettare. Prendo un caffè (anzi, ne prendo due!) e vado avanti.
Alle 16 individuiamo gli scafisti: abbiamo abbastanza elementi per arrestarli. La tensione si alza e la stanchezza lascia il posto all’adrenalina: qui gli equilibri sono spesso labili, basta un nonnulla per accendere la miccia e creare disordini. Uno sbarco è duro, emotivamente e psicologicamente, per tutti. I migranti, tramite i mediatori e gli interpreti, ci raccontano le loro storie. Testimonianze crude, condite da soprusi, violenze, minacce. Molti di loro sono minori, che vengono qui per coronare un sogno fatto di pace e di cibo, almeno una volta al giorno. Penso a mio figlio, ha la stessa età di alcuni di loro. Adesso è a casa a fare i compiti, o starà giocando a calcetto con gli amici, e penso che per fortuna non ha mai conosciuto le realtà e le cattiverie che invece hanno costellato l’infanzia di questi ragazzi, la cui unica sfortuna è quella di essere nati da un’altra parte del mondo.
Mi guardo intorno, vedo tanti bambini che giocano, felici. Gli stiamo regalando una nuova possibilità di vita e forse è solo questo l’importante…
È quasi sera e torniamo alla «base», in Questura. I migranti sono stati trasferiti nei Cara. Prendo un altro caffè e mi rimetto davanti al pc: adesso devo redigere gli atti relativi agli arresti: tredici scafisti sono tanti e altrettante sono le «carte» da compilare.
È ora di cena, faccio uno squillo a mia moglie. Anche stasera non sarò con loro, ma lei ormai è abituata. Mangio una pizza, questa volta seduto alla scrivania: perdere altro tempo per andare in mensa vorrebbe dire ritardare ancora il rientro a casa. Gli scafisti appena arrestati solo lì, guardano con curiosità il mio pasto, probabilmente non hanno mai visto una pizza in vita loro. E hanno fame. Avvicino il cartone e gliela offro, la prendono con avidità, probabilmente non mangiano da giorni. Il caldo è ancora asfissiante e non ci dà tregua neanche qui; di aria condizionata neanche a parlarne.
È notte fonda. Accompagniamo gli arrestati nel carcere, alcuni, negli istituti minorili, altri.
Torno a casa esausto. Sono le 5 del mattino, vedo sorgere un’altra alba senza mai aver chiuso occhio. Faccio una lunga doccia e mi infilo nel letto, di fianco a mia moglie.