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L’ITALIA FA SPALARE LA NEVE E RIMUOVERE I RIFIUTI AI NOSTRI SOLDATI, MA NON ABBIAMO I NUMERI PER FARE GUERRE

(di Gianandrea Gaiani) – Le “gaffe” dei ministri
Gentiloni e Pinotti sul supposto e poi smentito intervento militare in Libia
hanno riportato l’attenzione sulle reali capacità dell’Italia di combattere una
guerra. Una “vera” guerra, di quelle non mascherabili come “missioni di pace”.
Quando Renzi ha dichiarato che “non è il momento per un intervento militare”,
smentendo così le affermazioni bellicose di Paolo Gentiloni (“l’Italia è pronta
a combattere”) e di Roberta Pinotti che aveva ipotizzato l’invio in Libia di 5
mila militari, da più parti anche presso i nostri partner e alleati, hanno ripreso vigore osservazioni e battute
umoristiche sull’incapacità dell’Italia di combattere.


Valutazioni probabilmente
accettabili se parliamo della consolidata difficoltà della nostra classe
politica, indipendentemente dal colore dei governi, di concepire le Forze armate
come uno strumento che deve mantenere un elevato tasso di efficienza operativa
per tutelare gli interessi e la sicurezza nazionali. Sul campo però i militari italiani hanno sempre combattuto con
determinazione e successo in tante battaglie che nulla avevano a che fare con
lo stereotipo della “missione di pace” e per questo sono state tenute spesso
nascoste all’opinione pubblica.
Secondo stime non ufficiali nel corso di
centinaia di scontri in Somalia i nostri militari hanno ucciso non meno di 4
mila miliziani nel 1993-’94. Almeno altrettanti i talebani uccisi in battaglia
in Afghanistan dal nostro contingente. Nel 2004 le nostre truppe in Iraq hanno
ucciso centinaia di miliziani nel corso di tre battaglie per i ponti di
Nassiriya che forse i guerriglieri sciiti non avrebbero mai cominciato se al
nostro contingente fossero stati assegnati subito i carri armati Ariete e gli
elicotteri da attacco Mangusta. Armi che, inviate d’urgenza in Iraq, hanno
scoraggiato ogni altro tentativo degli insorti di prendere il controllo della
città.
La
politica continua a vedere i militari come uno strumento utile, anche in
termini mediatici, a compensare le carenze di altri enti e corpi dello stato
(spalano
la neve, pattugliano le strade, rimuovono persino i rifiuti) ma nelle missioni all’estero sono considerati
il sostituto di una politica estera inesistente o inadeguata
. L’attuale
governo non fa eccezione, basti pensare che Renzi non si è mai recato in visita a nessun contingente schierato
oltremare.
Anni di missioni spesso sanguinose in Iraq, Libano, Balcani e
Afghanistan non ci hanno garantito nessuna penetrazione o sfera d’influenza
politica, economica o strategica in quelle regioni. Le missioni sono concepite
come il necessario obolo da pagare agli alleati, di solito agli Stati Uniti,
più recentemente e in misura minore all’Unione europea. L’anno scorso il
Consiglio supremo di difesa esortò a mantenere, nonostante i tagli al bilancio,
la capacità di partecipare alle operazioni “richieste dalla comunità
internazionale”, non quelle imposte dagli interessi nazionali. Per questo le Forze armate italiane sono
caratterizzate dall’imbarazzante paradosso di poter sopravvivere in termini di
efficienza solo in presenza di missioni oltremare che garantiscono con fondi ad
hoc
(1,6 miliardi nel 2011, meno di un miliardo nel 2014 e 542 milioni per
i primi 9 mesi del 2015) la possibilità di addestrare i reparti e mantenere
operativi i mezzi necessari anche per combattere.
Da
sempre sottofinanziato, l’apparato militare italiano ha subìto negli ultimi 15
anni tagli ai bilanci pari al 23 per cento in termini reali.

Quest’anno quasi il 70,7 per cento dei 13,8 miliardi assegnati alle Forze
armate alla voce “funzione difesa” sono assorbiti dagli stipendi, il 20,7 viene
stanziato per acquisire nuovi equipaggiamenti (voce rinforzata da altri 2
miliardi circa forniti dal ministero dello Sviluppo economico)  mentre
appena l’8,5 per cento (conto la media del 25 per cento di gran parte dei 
nostri alleati) è assegnato all’esercizio, voce che copre addestramento,
carburante e manutenzione di mezzi e infrastrutture.

Una
tendenza consolidata da molti anni che ha portato ormai alla paralisi
l’apparato militare.
Il ministero della Difesa non rivela dati
ufficiali ma gira voce che meno del 30 per cento dei velivoli sia operativo a
causa di carenze di ricambi e carburante, percentuale che scende al 15 per
cento per gli elicotteri dell’esercito. I piloti volano sempre di meno e interi
reggimenti non hanno i fondi per l’addestramento al combattimento. Negli ultimi
anni preparazione adeguata e mezzi efficienti sono stati garantiti solo ai
reparti destinati a operare all’estero grazie ai fondi per le missioni che con
il ritiro dall’Afghanistan sono in grande calo, come il numero di reparti in
grado di combattere. L’Italia sarebbe
oggi in grado di schierare in Libia i 5 mila militari indicati dal ministro
Pinotti mobilitando le forze di pronto impiego (parà della Folgore, fucilieri
di marina, forze speciali e qualche unità specialistica) ma dopo sei mesi
avremmo difficoltà a trovare reparti altrettanto “combat ready” con cui avvicendarli.
Rovesciando la celebre frase di Georges Clemenceau verrebbe da dire che in
Italia la “guerra è una cosa troppo seria per lasciarla fare ai politici”.

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