Polizia senza soldi. Il 112 affidato ai call center e il mistero del Fondo Unico Giustizia
(di Giulia Belardelli) – Macchine ferme ai box perché non ci sono i soldi per riparare i freni, uffici di polizia giudiziaria azzoppati, pochissime risorse per fare operazioni di intelligence.
E paradossi come le centinaia di milioni di euro del Fondo Unico Giustizia, che dovrebbero servire anche alla riqualificazione della polizia e che invece non si sa dove siano e perché siano “intoccabili”. O ancora, l’idea di affidare a un call center le telefonate d’emergenza al 112, sperimentazione già in corso in Lombardia. “Siamo in una situazione gravissima”, spiega all’HuffPost Nicola Tanzi, segretario generale del Sindacato Autonomo di Polizia (Sap). “L’anno prossimo inizierà con 15 mila uomini in meno nella polizia di Stato. Una riduzione che significa meno sicurezza reale per i cittadini”.
Cosa manca oggi alla polizia? Quali sono le difficoltà con cui vi scontrate ogni giorno?
Oggi mancano le risorse per tutto. Non abbiamo i soldi per fare operazioni di intelligence, né tanto meno per le missioni. Il che vuol dire non poter svolgere le attività necessarie per contrastare le organizzazioni criminali che sempre più spesso si scambiano uomini, risorse e favori tra le varie regioni. Le nostre operazioni di contrasto alla mafia, alla camorra e alla sacra corona sono azzoppate in partenza se non possiamo spostarci da una regione all’altra come richiede una seria indagine giudiziaria. Le risorse previste dalla legge di Stabilità (100 milioni di euro) verranno utilizzate per pagare l’operatività e le attività di servizio. Tutto il resto – intelligence, addestramento, aggiornamento, mezzi, strutture – rimane scoperto.
Mancano le autovetture per la polizia giudiziaria. In molti casi ci sono gli agenti, ma non ci sono i mezzi. Quindi abbiamo uffici di polizia presso i tribunali che però non possono svolgere attività sul territorio, non possono andare a svolgere il lavoro richiesto dai magistrati. Stesso discorso per le squadre volanti, che per uscire devono aspettare che rientri la volante di turno. Il tutto mentre – paradosso dei paradossi – abbiamo autovetture ferme ai box perché non ci sono i soldi per la manutenzione: per cambiare i freni, le ruote, cose così, non dico per rimetterle a nuovo.
Di fronte alla scarsità di risorse, quali sono le vostre proposte? Da dove si inizia?
Sono sei anni che il sindacato chiede una razionalizzazione delle forze in campo. Non è più possibile avere cinque corpi di polizia sul territorio nazionale. È giunta l’ora di studiare un meccanismo di razionalizzazione che miri a ottimizzare le risorse. Come è successo in Francia, anche in Italia è arrivato il momento di mettere tutte le forze di polizia alle dipendenze del ministero degli Interni. Non ci possiamo più permettere nessuno spreco. Cinque sale operative nelle diverse città sono troppe.
Cosa vi aspettate dal governo? Quali sono le mosse che vi hanno infastidito di più nel 2013?
Siamo stanchi della mancanza di coraggio da parte della politica. Dal governo ci aspettiamo più coraggio. Soprattutto, siamo stanchi di finte soluzioni. Le faccio un esempio eclatante. La Corte di giustizia europea ha condannato l’Italia per inadempienza sull’attivazione del numero telefonico d’emergenza europeo 112. E l’Italia cosa fa? Invece di attrezzarsi per risolvere la questione, sperimenta una soluzione che affida a un call center lo smistamento delle telefonate d’emergenza, con evidenti problemi per la privacy dei cittadini e mettendo a rischio la capacità delle forze dell’ordine di garantire la sicurezza.
Ci spieghi meglio. Se io chiamo il 112 per denunciare un reato mi potrebbe rispondere l’operatore di un call center?
Esatto. In alcune città è in corso una sperimentazione che affida a delle società lo smistamento delle telefonate al numero d’emergenza. Questo vuol dire che se un cittadino in difficoltà chiama il 112 a rispondergli è un altro cittadino, dipendente (o magari collaboratore) di una società privata che ha vinto l’appalto. Le criticità di un sistema del genere sono moltissime. Come la mettiamo, ad esempio, con i reati perseguibili d’ufficio? Se a rispondere al telefono è un pubblico ufficiale ha il dovere di comunicare il tutto all’autorità giudiziaria, altrimenti compie il reato di omissione d’atto d’ufficio. Il cittadino normale, invece, non è obbligato a riferire il fatto costituente reato. Ma è solo uno dei problemi. Sulla privacy, ad esempio, si aprono punti interrogativi enormi. Se ad esempio chiamo per denunciare una violenza sessuale, non è forse lecito aspettarsi che dall’altra parte del telefono ci sia un pubblico ufficiale, e non l’operatore di un call center di cui non so neanche il nome? Infine, non sono neanche sicuro che con questa soluzione si finisca con il risparmiare davvero. Bisogna considerare i soldi per l’appalto privato.
Dove è in corso questa sperimentazione?
In alcune città soprattutto della Lombardia. È stata voluta dal presidente della Regione Roberto Maroni, uno dei politici che in questi anni hanno più insistito sulla sicurezza. Un paradosso, non le pare?
Ma non è tutto. Torniamo alla differenza tra sicurezza reale e percepita. Mi accennava di una trovata dell’ex ministro La Russa ancora in piedi…
Sì, siamo rimasti a bocca aperta quando abbiamo saputo che il governo ha stanziato 60 milioni di euro per il rifinanziamento nei prossimi sei mesi dell’operazione Strade Sicure, una trovata che risale al 2008 quando il ministro della Difesa era Ignazio La Russa. L’obiettivo centrale di quella operazione – che consiste nell’affiancare militari alle forze di polizia per il pattugliamento delle strade – consiste nell’aumentare la sicurezza percepita dalla popolazione. Ma non si riesce proprio a capire il vantaggio di aumentare la sicurezza percepita in un momento in cui quella reale fa acqua da tutte le parti. Affiancare ai poliziotti dei militari che passeggiano per la città non è certo il miglior modo di rispondere alle esigenze dei cittadini. Anche perché un conto sono gli obiettivi sensibili (le ambasciate o il cantiere Tav, per capirci), un altro sono i comuni interventi urbani (come una rapina, ad esempio), per i quali i militari non sono preparati. In questo modo non si fa altro che proseguire sulla linea della sicurezza percepita portava avanti dal governo Berlusconi. Anche se ora è chiaro che le priorità sono altre.
E invece cosa mi dice sul Fondo Unico Giustizia?
Questa situazione fa ancora più rabbia perché, volendo, i soldi ci sarebbero. Da parecchi anni abbiamo un appostamento di risorse che si chiama FUG (Fondo Unico Giustizia), composto da capitali e liquidi sequestrati alla criminalità organizzata. Secondo una legge dello Stato, i soldi di questo fondo vanno ripartiti tra ministero degli Interni, ministero di Grazia e Giustizia (45%) e Tesoro (1%). Ecco, il punto è che questi soldi non si riescono a usare. E parliamo di centinaia di milioni di euro, visto che non è neanche dato sapere la cifra esatta. In una relazione alla Camera qualche anno fa l’ex ministro degli Interni Alfredo Mantovano parlò di oltre 600 milioni di euro esigibili, che si suppone debbano essere aumentati, dal momento in cui non se ne conosce la sorte. Ecco, la domanda è proprio questa: questi soldi dove sono? Quanti sono? E come vengono utilizzati?
Quali sentimenti accompagnano il lavoro di un poliziotto chiamato a contenere le manifestazioni di rabbia di chi si sente escluso dalla società e preso in giro dalla politica?
È inutile girarci intorno, le forze di polizia oggi vivono un disagio profondo. Anzi, direi un disagio doppio: da un lato condividono le difficoltà di tutti gli altri cittadini (blocco contrattuale da quattro anni, tagli, poche gratificazioni, impossibilità del riordino delle carriere); dall’altro sono percepite da chi protesta come dei nemici cui dare addosso ogni volta, perché il poliziotto se non interviene è inefficiente, se interviene è violento. Spesso ci troviamo tra due fuochi, il proprio disagio e quello delle persone che protestano.
fonte:huffingtonpost.it