Pensioni: nessuna deroga per forze armate e forze dell’ordine. Tre mesi in più per uscire nel 2027
Il premio per una vita di servizio? Tre mesi in più di lavoro
Altro che riconoscenza. Pare che dal 2027, per militari e forze dell’ordine, la “meritata pensione” non arriverà con fanfare o saluti alla bandiera, ma con un adeguamento secco ai requisiti della legge Fornero.
Tradotto: si lavorerà di più.
Serviranno 60 anni e 3 mesi per la pensione di vecchiaia (che salgono a 65 e 3 mesi per i gradi più alti) e 20 anni di contributi. Anche le pensioni di anzianità si dovrebbero allungare: chi oggi può uscire con 35 anni di contributi e 58 di età o 41 anni di servizio, dovrà aggiungere un trimestre.
Un ipotesi non confermata per il momento.
Non è solo una questione di mesi, ma di messaggi e assegni
Certo, si parla solo di un trimestre. Ma il punto non è la durata: è il messaggio che passa.
Da anni la politica si riempie la bocca di “vicinanza alle forze dell’ordine e alle forze armate”, ma alla prova dei fatti la mano resta ferma sul rigore dei conti.
E mentre si discute di quando si potrà andare in pensione, nessuno affronta il vero problema: quanto si prenderà.
Con il passaggio progressivo dal sistema retributivo al contributivo, gli assegni diventano sempre più leggeri.
Chi andrà via nei prossimi anni riceverà pensioni più povere, e il trend è destinato a peggiorare: ogni nuova quota di contributivo erode quella di retributivo, fino ad arrivare — inevitabilmente — al contributivo puro, dove l’assegno riflette non più il servizio svolto, ma solo quanto si è versato.
Gli unici “salvati”: chi fa lavori davvero usuranti
Il meccanismo non toccherà i lavori usuranti — catene di montaggio, turni notturni, autisti, mestieri logoranti — che manterranno la cosiddetta Quota 97,6 (61 anni e 7 mesi d’età, 35 di contributi).
E per le donne? La discussa “Opzione Donna”, già penalizzata dal ricalcolo contributivo, potrebbe allungare ulteriormente i requisiti: 35 anni di versamenti e 60 o 59 anni d’età (a seconda del numero di figli).
Insomma, la flessibilità resta una parola buona per i talk show, ma non per i bollettini Inps.
Il nodo dei conti: il rigore non va in pensione
Sullo sfondo, un quadro di bilancio da vertigini.
Bloccare per sempre l’adeguamento alla speranza di vita costerebbe, secondo stime interne al Tesoro, 15 punti di PIL in più di debito al 2045, e 30 punti al 2070.
Perfino una sospensione di due soli anni — calcola l’Osservatorio sui conti pubblici della Cattolica — brucerebbe 3,3 miliardi nel 2027 e 4,7 nel 2028.
E quei soldi non ci sono.
Il ministro dell’Economia Giancarlo Giorgetti ha messo il lucchetto ai conti: massimo 5 miliardi di margine, forse 8 secondo voci di Palazzo, ma non un euro in più.
Con la spesa per pensioni che viaggia verso il 17% del PIL nel 2040, ogni deviazione dai parametri UE equivarrebbe a una dichiarazione di guerra ai mercati.
Governo spaccato: la Lega scalpita
Il vero terreno minato è politico.
Da un lato Giorgetti e il Tesoro, che difendono i conti con la precisione di un chirurgo; dall’altro la Lega, che teme di perdere consensi proprio sul suo elettorato di riferimento — militari, poliziotti, artigiani, autonomi — i più colpiti da un’uscita rinviata.
Nel mezzo, Palazzo Chigi, che deve conciliare tutto: taglio dell’Irpef al 35%, nuove detrazioni per le famiglie, pace fiscale.
Il risultato? Una coperta troppo corta e un Paese che invecchia in divisa.
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