OBBLIGO DI RIFERIRE AI SUPERIORI: LUCI E OMBRE DELLA NORMA CHE IMPEGNA LA POLIZIA AD INFORMARE LA SCALA GERARCHICA DELLE INDAGINI IN CORSO
DAL CODICE SUMERO ALLA LEGGE MADIA, 41 SECOLI DI BATTAGLIE PER IL CONTROLLO DELL’AZIONE PENALE – Luci e ombre della norma che impegna la polizia ad informare la scala gerarchica delle indagini in corso – di Cleto IAFRATE
- Cenni storici
Da sempre la manipolazione e il controllo dell’azione penale è attività che appassiona chi detiene il potere. L’esercizio di tale attività ha trovato le condizioni d’esercizio ideali soprattutto nelle monarchie e nei regimi totalitari, dove il popolo si trova spesso in balia di un potere politico inquisitorio e invadente.
In tali sistemi politici la manipolazione dell’azione penale viene spesso utilizzata anche per assicurare la formazione del consenso popolare. Se il potere emergesse nella sua nuda realtà non sarebbe tollerato dal popolo.
Nel corso dei secoli si è tentato di manipolare l’azione penale con diversi espediente alcuni dei quali hanno avuto più successo di altri.
Partendo da quello che ha avuto più successo di tutti, faccio un rapidissimo excursus storico[1].
Il progenitore del nostro codice di procedura penale è il “Tractatus de maleficiis”, scritto nel 1286 da Alberto Gandino da Crema. In esso uno spazio importante è occupato dall’ordalia. Si tratta di un’antichissima pratica utilizzata per dirimere le vertenze giuridiche che non si potevano, o non si volevano, regolare con mezzi umani. Di “ordalia del dio fiume” si parla addirittura nel Codice sumero di Ur-Nammu (2112 – 2095 a.C.).
Ordalia significa “giudizio di dio” ed è una procedura basata sulla premessa che dio aiuta l’innocente. L’accusato viene sottoposto ad una prova il cui esito, apparentemente incerto, è ritenuto come diretta conseguenza dell’intervento di dio[2] e determina la sua innocenza o colpevolezza. In Europa le più utilizzate sono “l’ordalia del fuoco” e “l’ordalia dell’acqua”. Nel primo caso l’accusato deve fare un certo numero di passi (solitamente nove) tenendo tra le mani una barra di ferro rovente. Nel secondo caso, invece, deve togliere una pietra da un pentolone di acqua bollente. L’innocenza è dimostrata dall’assenza di ustioni, ovvero, dalla trascurabilità delle stesse. Se le lesioni sono ritenute guaribili, l’accusato è giudicato innocente.
L’elemento fuoco utilizzato per arroventare il metallo o per riscaldare l’acqua, però, è preparato sotto il controllo e la supervisione del clero locale che è a stretto contatto con i potenti di Corte. Solitamente sono sottoposte alla pratica dell’ordalia le donne accusate d’infedeltà coniugale e quelle sospettate di stregoneria. E’ assai probabile che l’ordalia venisse in qualche modo “aggiustata”, agendo sull’elemento fuoco, per ottenere il verdetto ritenuto giusto; nel senso che la verga viene arroventata o solo intiepidita in base ai gusti del “marchese del Grillo” di turno.
Appare evidente che l’ordalia, più che giudizio di dio, fosse un imbroglio ideato dagli uomini allo scopo di manipolare l’azione penale, sicché le condanne colpissero solo i malvisti da chi comanda. I sacerdoti e i potenti di Corte, dal canto loro, non sono disposti a sottoporsi ai rischi dell’ordalia dell’acqua o del fuoco. Per loro hanno previsto “l’ordalia del boccone maledetto”. Il principio, formalmente, è lo stesso – ovverosia, dio aiuta l’innocente – nella sostanza, però, la prova è molto differente. Un pezzo di pane, chiamato appunto “boccone maledetto”, è posto sull’altare della chiesa. Si porta l’accusato di fronte all’altare e, dopo aver recitato una preghiera d’invocazione, gli si offre il “boccone maledetto”; che, se colpevole, gli si blocca in gola e lo fa soffocare. Dal momento che all’epoca si panificava ogni settimana, non si esclude che, di tanto in tanto, qualcuno, senza denti, sia stato giudicato colpevole.
Siamo evidentemente lontani anni luce dalla struttura processuale odierna che richiede tre protagonisti: accusa, difesa e organo giudicante.
Nel 1808 il diritto processuale penale è disciplinato dal “Code d’instruction criminelle” che prevede un processo cosiddetto “bifasico”, nel quale a tenere banco è il segreto istruttorio. L’istruttore, investito dal procuratore del Re raccoglie segretamente le prove e passa gli atti al pubblico ministero. I verbali dell’istruttore si abbattono come una mannaia su imputato e testimone durante la fase del dibattimento, cogliendoli spesso di sorpresa. La bilancia, però, pende sempre dalla parte del Re che nomina l’istruttore e i suoi commissari. D’altronde, nella monarchia ogni giurisdizione promana dal re, il quale interviene dove, quando e come vuole.
Nel codice del 1913, Giolitti crea qualche piccolo varco al segreto istruttorio. Ammette la partecipazione dei difensori ad alcuni atti: esperimenti, ricognizioni, perizie, perquisizioni domiciliari. Il pubblico ministero, però, rimane sempre di parte, in quanto istruisce con i poteri del giudice; ad esempio, interroga i testimoni e usa nel dibattimento le prove che ha formato quasi in completa autonomia.
Il codice successivo, emanato con R.D. il 19 ottobre 1930, è anch’esso figlio del suo tempo. L’istruzione ridiventa segreta, resta il pubblico ministero istruttore che, però, dipende ancora troppo dal governo; il contraddittorio perde fiato e svanisce ogni nullità non dedotta entro dati termini da chi vi abbia interesse.
Con l’avvento della Costituzione il segreto istruttorio viene man mano demolito da diversi interventi legislativi e da alcuni pronunciamenti della Corte costituzionale. Con la legge 190/1970 il difensore viene finalmente ammesso anche all’interrogatorio. Rimane, però, ancora escluso dagli esami testimoniali e dai confronti, e lo resterà fino alla fine degli anni ottanta.
Siamo finalmente giunti al Codice di procedura penale vigente, introdotto con DPR 447 del 22 settembre 1988 ed entrato in vigore il 24 ottobre dell’anno successivo.
In esso il segreto istruttorio si contrae e si trasforma in segreto investigativo, che permane in tutta la fase delle indagini preliminari. “Gli atti di indagine compiuti dalla polizia giudiziaria sono coperti dal segreto fino a quando l’imputato non ne possa avere conoscenza e, comunque, non oltre la chiusura delle indagini preliminari” (art. 329, I comma).
La previsione di compiere in segreto determinati atti d’indagine, nella fase delle indagini preliminari, risponde alla logica di evitarne la compromissione.
La violazione del segreto provocherebbe un’alterazione dell’equilibrio dei poteri.
Il vocabolo “segreto” deriva dal verbo “seiungo” ossia, “secerno”, “separo”. Rispetto a un dato fatto, il segreto separa chi è tenuto a sapere, da tutti gli altri che non devono sapere. E’ di tutta evidenza che le possibilità che un fatto rimanga segreto diminuiscano all’aumentare del numero delle persone che ne vengono a conoscenza.
- Genesi della disposizione che impone di informare la scala gerarchica delle indagini in corso.
Come noto, il codice penale vigente vede la luce all’esito di un lungo iter parlamentare, che inizia nel marzo 1987 quando viene istituita una Commissione ministeriale incaricata di approntarlo. Il progetto viene esaminato prima da una Commissione interparlamentare, poi sottoposto alle osservazioni del Consiglio dei ministri e infine all’esame del CSM, dei più alti magistrati, delle associazioni forensi e del mondo universitario.
In ragione di tutte queste cautele che hanno accompagnato la fase di approvazione, mi pare quanto meno incauto, a tacer d’altro, il fatto che si sia approvato lo scorso agosto, quando tutti gli italiani erano al mare, un decreto legislativo che nasconde tra le “Disposizioni transitorie e finali” una deroga allo stesso codice. Mi riferisco all’art. 18, comma 5, del D.Lgs.[3] n. 177 del 19 agosto 2016, che – allo scopo, dichiarato, di “rafforzare gli interventi di razionalizzazione volti ad evitare duplicazioni e sovrapposizioni” – dispone che “i responsabili di ciascun presidio di polizia, trasmettano alla propria scala gerarchica le notizie relative all’inoltro delle informative di reato all’autorità giudiziaria, indipendentemente dagli obblighi prescritti dalle norme del codice di procedura penale.”
Ma come si è arrivati a questa disposizione?
A suggerirne l’introduzione è una delle osservazioni inserite nel parere formulato dai relatori allo Schema di decreto legislativo recante disposizioni in materia di razionalizzazione delle funzioni di polizia e assorbimento del Corpo forestale dello Stato (Atto n. 306 – punto c. – pag. 14).
Preciso che nel corso dell’esame in commissione, in merito a questa specifica osservazione, vengono sollevate varie critiche dalle opposizioni – sia dai 5 Stelle (Terzoni e Basilio) che da Forza Italia con Elio Vito – tutte respinte al mittente da parte di diversi esponenti del Governo.
L’osservazione, poi approvata, invitava il Governo a valutare l’opportunità di estendere a tutte le forze di polizia la previsione di cui all’art. 237 del DPR 90/2010[4] (T.U.O.M.).
Preciso che l’art. 237 è stato solamente riordinato all’interno del DPR 90/2010 e che la sua datazione si perde nella notte dei tempi. L’art. 237 riproduce fedelmente il disposto dell’art. 151 Regio decreto 24 dicembre 1911, recante Regolamento generale per l’Arma dei Carabinieri. Il quale, a sua volta, recepisce, con qualche modifica, il precedente Regolamento di disciplina militare (approvato con R.D. 30 ottobre 1859).
In questo periodo le Forze armate e di polizia rispondono a logiche differenti e hanno compiti e impieghi molto diversi da quelli attuali. Anche i regolamenti militari esprimono e riflettono quelle necessità. Si consideri che il regolamento citato del 1859 contiene una premessa introduttiva programmatica che traccia le linee guida e d’azione. In questo preambolo si afferma che “l’esercito è istituito prima per sorreggere il trono e poi per tutelare le leggi e le istituzioni nazionali”. Gli abitanti di Firenze – e dintorni – lo conoscono bene quel regolamento, in quanto una copia dell’edizione originale è custodita presso la biblioteca dell’istituto geografico militare di Firenze.
Facciamo un passo indietro. A quei tempi, come abbiamo visto, la bilancia della procedura pende tutta dalla parte del Re, che nomina istruttori e commissari e gli impone di riferire sulle indagini in corso. In questo modo riesce a controllare e, se necessario, manipolare, l’azione penale. Si pensi a quelle indagini che minacciano gli interessi del trono o della casa reale.
Oggi, invece, il potere non appartiene più ad un sovrano “nominato” e i compiti assegnati alle Forze Armate e di polizia sono profondamente cambiati. Esse sono concepite per servire le istituzioni democratiche e soprattutto per garantire il libero articolarsi della dialettica democratica all’interno del Paese.
Con l’entrata in vigore della Carta costituzionale si sono invertiti i termini di quella premessa programmatica: l’esercito è istituito prima per tutelare le leggi e le istituzioni nazionali e poi (eventualmente) per sorreggere “il trono”.
- Conclusioni
Discorso lungo, ma ne è valsa la pena perché a questo punto si possono tirare le somme.
Ritengo che così come l’art. 1 della Costituzione abbia mandato in soffitta quella premessa programmatica – secondo cui l’esercito è istituito prima per sorreggere il trono e poi per tutelare le leggi e le istituzioni nazionali – il successivo art. 109 della Costituzione avrebbe dovuto fare altrettanto con l’art. 151 R.D. sopra citato, che di quella premessa costituisce espressione e modus operandi. Se la regia disposizione è ancora in vigore ciò è dovuto ad una mera svista del legislatore. Una svista che dura da circa 70 anni.
Una tale convinzione deriva, non solo da alcuni fatti giudiziari che hanno caratterizzato la storia italiana degli ultimi 50 anni(*), ma anche dal dibattito che ci fu in seno all’Assemblea Costituente, nel quale emerse la proposta, ampiamente condivisa, di formare un corpo di polizia giudiziaria separato rispetto alle altre forze dell’ordine e posto alle dirette dipendenze – sia funzionali, sia gerarchiche – dell’autorità giudiziaria. Si giunse, probabilmente per motivi di contenimento della spesa, a una decisione di compromesso fondata su una dipendenza solo funzionale.
Il legislatore costituente mai si sarebbe sognato di porre un qualche filtro tra il P.M. e la P.G. ritenendo la dipendenza funzionale diretta condizione imprescindibile. Era ancora vivo il ricordo dell’esperienza del regime precedente e dell’uso politico della giustizia.
Preciso che la fase d’inoltro delle informative di reato precede quella delle indagini preliminari, che, come detto, devono rimanere segrete. Nella fase delle indagini preliminari si acquisiscono gli elementi di prova, al fine di valutare l’esercizio dell’azione penale.
La dipendenza della polizia giudiziaria dal pubblico ministero, pertanto, in futuro potrebbe non essere più diretta ma filtrata. Lo scenario prospettato, infatti, prelude a una scelta legislativa volta a spostare verso l’esecutivo la guida della polizia giudiziaria, ciò apre le porte a rischiose ingerenze della politica sulla magistratura.
Non era questa la visione dei Padri Costituenti.
Ma v’è di più. Si consideri che gli appartenenti alle forze di polizia ad ordinamento militare, oltre ad essere inseriti in una catena rigidamente gerarchizzata che si aggancia all’autorità politica, non sono posti nella condizione di dire “signornò” ai loro superiori. L’organizzazione attuale dell’ordinamento militare relega il militare in una condizione di tale subordinazione e vulnerabilità da rendere il principio dell’obbedienza leale e consapevole nulla più che un mito[5].
Premesso tutto quanto fin qui esposto, ritengo che la disposizione, così com’è scritta, non risponda alle asserite esigenze di coordinamento e razionalizzazione delle forze di polizia; auspico, pertanto, che sia presto emendata nel senso di introdurre dei divieti per i vertici delle Forze di polizia e di prevedere dei limiti per quelle indagini che la politica ha interesse a conoscere e controllare (corruzione, frode fiscale, appalti, ecc.). E’ innegabile che debba esserci coordinamento tra le forze di polizia, ma questa attività spetta al pubblico ministero; è lui il dominus esclusivo dell’indagine.
(*)Post scriptum
Nel 1991, in un contesto di grave emergenza mafiosa, fu istituita la Direzione Investigativa Antimafia (DIA), la Direzione nazionale antimafia (DNA) e la figura del Procuratore nazionale antimafia. La legge fu ideata da Giovanni Falcone; il quale, probabilmente, ne avvertì la necessità mentre cercava di fare luce sulle infiltrazioni mafiose all’interno delle istituzioni. Falcone, presumibilmente, ritenne che lo strumento investigativo di cui disponeva – efficientissimo contro la manovalanza mafiosa – andasse rafforzato per combattere la mafia oltre un certo livello. Il magistrato, a tale scopo, intervenne sulla linea gerarchica e sulla dipendenza funzionale delle forze di polizia. Intrecciò e confuse nella nuova struttura interforze uomini appartenenti alle tre differenti linee gerarchiche (Interno, Difesa, Finanze), fino ad allora separate e alle dipendenze dei rispettivi Ministeri.
Cleto Iafrate
[1] Attingo qui dalla relazione di Franco CORDERO al Convegno «La Costituzione ha 60 anni: la qualità della vita sessant’anni dopo», organizzato dall’Università di Camerino in collaborazione con la rivista «costituzionalismo.it» e tenutosi ad Ascoli Piceno nei giorni 14 e 15 marzo 2008.
[2] Preciso, da cattolico, che il dio dell’ordalia è distante e distinto dal Dio di Gesù Cristo. Quest’ultimo, come ha ben chiarito, non è in alcun modo coinvolto nelle nostre vertenze giudiziarie: “O uomo, chi mi ha costituito giudice o mediatore sopra di voi?” (Lc 12,14). Tant’è che il quarto Concilio Laterano del 1215 ha imposto ai sacerdoti il divieto assoluto di amministrare le ordalie. La pratica delle ordalie continuò in assenza del clero ancora per qualche secolo, prima di scomparire definitivamente.
[3] Emanato in attuazione dell’art. 8, comma 1, lettera a), della legge Madia di riforma della P.A. (L. 7 agosto 2015, n. 124).
[4] Questo il testo del primo comma dell’articolo: “Indipendentemente dagli obblighi prescritti dalle norme del codice di procedura penale, i comandi dell’Arma dei carabinieri competenti all’inoltro delle informative di reato all’autorità giudiziaria, danno notizia alla scala gerarchica della trasmissione, secondo le modalità stabilite con apposite istruzioni del Comandante generale dell’Arma dei carabinieri”.
[5] Per un esauriente approfondimento sul punto, rimando ad un precedente intervento, pubblicato sull’ultimo numero della rivista di cultura giuridica “Diritto & Questioni Pubbliche” (p. 313), dal titolo “Obbedienza, ordine illegittimo e ordinamento militare”.