Mensa lontana, i poliziotti fanno ricorso ed ottengono il buono pasto. “Tempi troppo ristretti, non devono trangugiare il pranzo”
I ricorrenti, tutti agenti della Polizia di Stato con sedi di lavoro in Firenze presso le caserme di via Zara, via della Casella, via del Visarno, piazza San Giovanni e piazza dei Ciompi, affermano di essere impiegati in servizi esterni ed interni con turnazione di almeno sei ore articolata in orari che non consentirebbero loro di fruire delle mense convenzionate di via Baldinucci, via Alamanni e via Mannelli, in quanto dislocate in punti della città non facilmente raggiungibili e destinate a dipendenti pubblici la cui pausa pranzo ricade tra le ore 12,30 e le ore 14,30.
Gli stessi ritengono, nella proposizione del ricorso, di aver diritto alla fruizione dei buoni pasto alternativi alla mensa obbligatoria e chiedono che venga loro ristorato il danno derivante dalla loro mancata fruizione negli ultimi 5 anni.
Secondo la Questura fiorentina, invece, il cd. ticket restaurant potrebbe essere fruito solo qualora si verifichi la doppia condizione della impossibilità del rientro nel domicilio e della assenza nell’ambito del territorio comunale di una mensa gestita in forma diretta o convenzionata.
Nel caso di specie l’impossibilità del rientro a domicilio sarebbe riferibile solo agli agenti che risiedono fuori Firenze mentre l’altro presupposto mancherebbe del tutto, essendo ubicate nel medesimo comune ben 4 mense fruibili dagli appartenenti alla Polizia di Stato.
Secondo l’Avvocatura dello stato sulla scorta dei rilevi effettuati e delle mappe digitali, l’accesso a tali mense negli orari stabiliti non sarebbe affatto precluso né dai turni di servizio né dai tempi di percorrenza.
IL TAR HA ACCOLTO IL RICORSO
Il buono pasto è un beneficio che viene attribuito allo scopo di far sì che, nell’ambito dell’organizzazione del lavoro, si possano conciliare le esigenze del servizio con le esigenze quotidiane del lavoratore, al quale viene così consentita – laddove non sia previsto un servizio mensa – la fruizione del pasto, i cui costi vengono assunti dall’Amministrazione, al fine di garantire allo stesso il benessere fisico necessario per la prosecuzione dell’attività lavorativa, nelle ipotesi in cui l’orario giornaliero corrisponda a quello contrattualmente stabilito per la fruizione del beneficio.
La natura di tale indennizzo impone quindi – sottolinea il TAR – che le esigenze essenziali che esso tende a soddisfare (ossia la fruizione del pasto durante la pausa dopo un certo numero di ore lavorate) debbano poter essere soddisfatte, in sua assenza, in termini di effettività e concretezza. E ciò esclude, quindi, che la semplice presenza di una o più mense nel territorio cittadino o il fatto che il domicilio del lavoratore si trovi nel medesimo comune possano costituire condizioni idonee al recupero fisico del dipendente qualora non siano concretamente raggiungibili durante la pausa o per raggiungerli questi debba impiegare tutto il tempo a sua disposizione vanificando gli effetti della interruzione dell’attività lavorativa.
Sicché, laddove le fonti normative prevedono, in alternativa al buono pasto, la “possibilità” di gestione di una mensa tale locuzione deve essere intesa come messa a disposizione del personale di una mensa fruibile nei termini di cui si è detto, senza che tale concreta fruibilità possa essere irrigidita da prassi o circolari che se non modellate su situazioni reali rischiano di vanificare lo scopo a cui il beneficio è preordinato.
Muovendo da tali assunti ermeneutici il Collegio ha disposto una verificazione tesa appunto ad appurare i tempi necessari per raggiungere con i mezzi pubblici da ciascuna caserma ove i ricorrenti prestavano servizio:
a) la sede della mensa più vicina operante nei cinque anni precedenti la proposizione del ricorso e tenendo conto delle chiusure intervenute medio tempore e degli eventuali servizi convenzionati;
b) il domicilio di ciascun ricorrente qualora sita nel Comune di Firenze.
L’esito della verificazione, eseguita in termini particolarmente curati e puntuali, è stato, in sintesi, che solo in pochissimi casi si sono registrati tempi inferiori ai 30 minuti (e comunque sempre superiori ai 16/20 minuti con i mezzi pubblici).
Lo stesso verificatore ha quindi osservato che, considerando il tempo necessario per accedere ai carrelli (o preparare le pietanze per chi tona a casa) e per consumare il pasto, il rispetto dei tempi di rientro sarebbe impossibile o comunque molto difficoltoso. Dovendosi peraltro in tale valutazione tener conto che la pausa lavorativa, essendo preordinata al recupero fisico e psichico del dipendente, non può trasformarsi in una stressante rincorsa del tempo nella quale questi dovrebbe cronometrare gli spostamenti o trangugiare cibarie in tutta fretta nel costante timore di rientrare in ritardo.
Il diritto al buono pasto deve essere pertanto riconosciuto.
Sicché – conclude il TAR – in ottemperanza alla sentenza il Ministero intimato dovrà corrispondere ai ricorrenti una somma pari al valore di un buono pasto per tutte quelle giornate lavorative in cui gli stessi hanno eseguito turni di lavoro che avrebbero dato loro diritto alla fruizione della mensa. E ciò per il quinquennio precedente alla notifica del ricorso.
Le somme in tal modo determinate andranno maggiorate degli interessi legali dal dovuto al saldo. Il TAR ha altresì condannato il Ministero resistente al pagamento delle spese legali liquidate in Euro 3.000 oltre IVA e c.p.a. e alle spese di verificazione che liquidate in Euro 3.500.