Difesa

LIBIA: “MANDARE I NOSTRI ISTRUTTORI NON VUOL DIRE CHE POI TOCCA ALLE TRUPPE DI TERRA”

(di Giampaolo Cadalanu per Repubblica) – Come responsabile del Comando operativo interforze, Marco Bertolini è stato fino a poche settimane fa il comandante di tutte le operazioni delle Forze Armate.

Generale, allora l’Italia avrà compiti di addestramento delle truppe libiche?
“Per ovvie ragioni posso solo parlarne in termini generali. L’Italia con il tempo si è ricavata questo ruolo, perché l’addestramento è un’attività più digeribile per l’opinione pubblica. In Afghanistan si faceva il mentoring, molto più importante. E’ l’affiancamento delle unità per sostenerle nella pianificazione e condotta delle operazioni. Ma sulla Libia non posso aggiungere nulla”.

La Storia insegna che gli istruttori spesso sono la prima tappa di un impegno più diretto. Che ne dice?
“Per l’immaginario collettivo addestramento vuol dire far fare “attenti” e “riposo”, far sparare nei poligoni, ma il mentoring è molto più importante dal punto di vista tattico. Non so se si sia deciso di fare questo in Libia. Ma come attività ha una sua evoluzione: non si può “mentorizzare” un’unità e poi abbandonarla. Non necessariamente sarà attività sul campo, ma anche pianificazione. L’Afghanistan ce l’ha insegnato: bisogna andare con loro, vedere come si muovono, fornirgli le capacità che non hanno”.

Allora è corretto o no dedurre che la decisione di schierare istruttori non significa per forza un prossimo invio di truppe di terra?
“No, non lo implica automaticamente. In Libia, è chiaro che l’addestramento è in funzione delle operazioni. L’addestramento è un’attività costante, che va fatto a prescindere dalle operazioni. Invece il mentoring va fatto sulla base dei programmi, si pianifica in vista di un’operazione precisa”.

Ma la decisione di fare addestramento sarà sufficiente?
“L’impegno militare deve conseguire da una linea politica chiara. E in Libia ci sono crisi a diversi livelli, che si fronteggiano con mezzi diversi. Una strategia limitata al bombardamento di Sirte non sarebbe sufficiente. Ci sono difficoltà con Bengasi, con Haftar, ci sono problemi con Tobruk, che devono essere risolti dalla diplomazia. Poi c’è il flusso dei profughi in arrivo dal Ciad, dal Sudan, dal Niger. Come si può fermarlo? Certo non con i bombardamenti. Servono campi di accoglienza, operazioni di convincimento, servizi sanitari. Lo schieramento militare non basta”.

Un maggiore impegno italiano sul terreno che cosa potrebbe prevedere?
“Nel caso di operazioni sul territorio libico, se ci fosse una richiesta del governo, dovrebbero intervenire unità di manovra, reggimenti di fanteria che controllino il territorio, forze speciali per interventi rapidi. L’Italia non se la può cavare con le Forze speciali. Avremmo bisogno anche di organizzare un sostegno militare a Organizzazioni non governative per

la gestione dei profughi. Servirebbe il controllo dello spazio aereo, sia come trasporto che come possibilità di intervento. Insomma, dovremmo trasformare la nostra vulnerabilità, cioè la vicinanza, in un punto di forza, con la possibilità di intervento immediato”.

Lascia un commento

error: ll Contenuto è protetto