Leonardo e l’ombra di Gaza: Cingolani contrattacca, tra accuse ONU e realpolitik della difesa
Intervista al vetriolo: la replica dell’AD
Roberto Cingolani, amministratore delegato di Leonardo S.p.A., sceglie il Corriere della Sera per rispondere a quelle che definisce “accuse gravissime”: la presunta complicità dell’azienda italiana nel genocidio di Gaza.
Una narrazione che, secondo Cingolani, “demonizza Leonardo” ignorando il quadro normativo e la complessità della filiera europea dell’aerospazio e difesa.
“Per molto tempo non ho voluto reagire, ma ora serve chiarezza: troppe inesattezze e falsità che colpiscono i nostri lavoratori”, dichiara il manager, visibilmente irritato da un dibattito diventato terreno di scontro politico e morale.
La posta in gioco è doppia: l’immagine internazionale della prima azienda della difesa italiana e il ruolo strategico che Roma sta cercando di mantenere nel fragile equilibrio euro-mediterraneo.
Il contesto: la miccia ONU e la guerra infinita di Gaza
L’origine delle polemiche è il rapporto presentato all’ONU da Francesca Albanese, relatrice speciale per i diritti umani nei Territori palestinesi. Il documento, di quasi 100 pagine, dedica quattro sezioni a Leonardo, accusandola di contribuire – attraverso la produzione di componenti per i caccia F‑35 – alla macchina militare israeliana.
L’azienda italiana partecipa al programma Joint Strike Fighter, guidato da Lockheed Martin, insieme a decine di partner industriali globali. Leonardo produce sezioni delle fusoliere e componenti elettronici in stabilimenti di Cameri (Novara) e Venegono (Varese), che rientrano nei consorzi NATO-compatibili.
Gli F‑35 israeliani – 39 operativi a oggi – sarebbero stati impiegati, secondo fonti ONU e ONG, nei raid su Gaza.
Un nesso tecnico dunque esiste, ma il salto logico verso la “complicità in un genocidio” è, per Cingolani, irrazionale e politicamente strumentale: “Leonardo non esporta né armi né componenti belliche verso Israele da quando è esploso il conflitto. Tutte le licenze sono state sospese in base alla legge 185/1990 sotto controllo della UAMA (Unità per le Autorizzazioni dei Materiali di Armamento)”.
Due contratti, quattro tecnici, zero ordigni
Nel dettaglio, Leonardo ha in essere con l’esercito israeliano due soli contratti di manutenzione:
- uno siglato nel 2012 per elicotteri da addestramento,
- uno nel 2019 per aerei da scuola militare, entrambi non armati.
Si tratta, sottolinea l’AD, di “manutenzione ordinaria” svolta da quattro tecnici italiani sul posto.
Un’operazione di basso profilo tecnico che, in assenza di una sospensione governativa formale, non può essere interrotta unilateralmente: “Un recesso arbitrario sarebbe un illecito per un’azienda quotata e aprirebbe un contenzioso internazionale costoso e inutile”, spiega Cingolani.
Al momento, il Ministero degli Esteri e la UAMA valutano se estendere la legge 185 anche a questo tipo di contratti pregressi, così da fornire copertura giuridica a un’eventuale sospensione.
L’Italia tra industria, etica e geopolitica
Oltre la disputa legale, la vicenda tocca un nervo scoperto: il ruolo dell’industria bellica occidentale in un mondo in fiamme.
Leonardo è parte di oltre 150 programmi di cooperazione internazionale nel settore della difesa. La sua integrazione nella rete industriale euro-atlantica rende impossibile separare, di fatto, economia e geopolitica.
Cingolani lo ammette: “Ogni Paese europeo mantiene sovranità sulla propria difesa, ma la cooperazione industriale ci lega inevitabilmente. Nessuno poteva prevedere che Gaza sarebbe diventata il detonatore di un nuovo cortocircuito politico-mediatico”.
Nel frattempo, l’Italia – unico Paese UE con una costante presenza industriale nel Mediterraneo orientale – si muove in equilibrio precario tra alleanza atlantica, business strategico e opinione pubblica indignata.
L’ombra lunga del mercato della guerra
A fronte dell’indignazione internazionale per le vittime civili a Gaza, l’industria della difesa si trova sotto un riflettore etico che nessuna compliance può realmente evitare.
Cingolani insiste sulla legalità e sulla razionalità tecnica, ma l’opinione pubblica chiede conto del valore morale dei profitti generati da un comparto che alimenta – direttamente o indirettamente – l’economia di conflitti senza fine.
Eppure, nel contesto geopolitico attuale, la domanda globale di armamenti è in crescita del 13% nel 2024 (dati Sipri), e l’Europa spinge verso una autonomia strategica che implica inevitabilmente anche riarmo e produzione.
Leonardo è, in questo scenario, una pedina centrale e un simbolo ambivalente: difesa nazionale da un lato, compromesso morale dall’altro.
Difendersi è una cosa, giustificarsi un’altra
L’intervento di Cingolani appare lucido, formalmente inattaccabile, ma politicamente insufficiente.
Il nodo non è tanto se Leonardo abbia violato la legge – non lo ha fatto – quanto se il modello industriale europeo della difesa sia ancora sostenibile sul piano etico e strategico.
In un mondo dove le guerre si combattono anche per mantenere l’export in equilibrio, il confine tra “difesa legittima” e “complicità strutturale” si fa sottile come una fusoliera d’aereo.
E finché la diplomazia rimarrà subalterna alla produzione, anche la verità – come Gaza – rischierà di essere colpita da fuoco amico.
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