La battaglia di Caporetto: anatomia (e utilità) di una disfatta
L’alba del disastro
Alle 2.30 del mattino del 24 ottobre 1917, l’artiglieria austro-tedesca iniziò a tuonare contro le postazioni italiane. Cinque ore di bombardamenti incessanti, tra granate e gas asfissianti, aprirono quella che sarebbe passata alla storia come la madre di tutte le sconfitte: la battaglia di Caporetto (Karfreit per gli austriaci, Kobarid per gli sloveni).
Nel caos di fumo e detonazioni, un battaglione tedesco sfruttò una breccia minima nel fronte, riuscendo a infiltrarsi, piazzare esplosivi e tagliare le linee di comunicazione del Regio Esercito. Fu l’inizio di un collasso inarrestabile.

Il nemico e il meteo, alleati perfetti
Come se non bastassero le artiglierie, anche la natura giocò contro gli italiani. Nebbia fitta, pioggia e neve resero impossibili le segnalazioni luminose e disorientarono le truppe. Le fanterie austro-tedesche, avanzando lungo i fondovalle, sfondarono tra Plezzo e Tolmino e, a mezzogiorno, erano già alle porte di Caporetto.
Il fronte cedette in più punti, e la difesa italiana si trovò schiacciata e confusa, incapace di reagire in modo coordinato.
La disfatta e la ritirata
La rottura del fronte trasformò lo scontro in una fuga generale. Le truppe italiane, ormai senza ordini chiari, si ritirarono lungo la strada Udine–Codroipo, travolte dall’avanzata nemica.
In appena due settimane, il Regio Esercito arretrò di 200 chilometri, attestandosi infine sul fiume Piave. La disfatta provocò oltre 10.000 caduti, centinaia di migliaia di prigionieri e profughi civili, e lasciò ampie porzioni di territorio italiano in mano al nemico.
Il generale Luigi Cadorna, ritenuto responsabile della catastrofe, fu destituito e sostituito da Armando Diaz.
La lezione di Caporetto
Eppure, da quella tragedia nacque una nuova forza. La linea del Piave, più corta e difendibile, rese il fronte più compatto e coeso. Diaz introdusse strategie difensive moderne e una comunicazione più umana con le truppe, risollevando il morale del Paese.
Un anno dopo, nel 1918, l’Italia seppe resistere e contrattaccare, respingendo l’ultima offensiva nemica e vincendo la battaglia di Vittorio Veneto, che pose fine al conflitto.
Caporetto restò una ferita aperta, ma anche una lezione: la disfatta che insegnò a un esercito come rinascere.
