IO STO CON GLI SBIRRI
(di Aldo Grandi per la Gazzetta di Lucca) -In senso spregiativo la parola sbirro viene, da sempre, utilizzata all’indirizzo, indistinto, di un poliziotto o di un carabiniere. Una volta esso apparteneva, strettamente, alla cultura mafiosa mentre, poi, con l’arrivo della contestazione e del Sessantotto, Settantasette e via di questo passo, è diventato patrimonio della sinistra extraparlamentare prima, parlamentare poi visto che, seduti con le chiappe ben protette sulle poltrone di Montecitorio e Palazzo Madama, ci sono stati e ci sono tutt’ora numerosi ex militanti nelle formazioni che, nemmeno tanto tempo fa, erano soliti lanciare contro i rappresentanti delle forze dell’ordine tutto quello che capitava loro a tiro. Chi scrive non ha mai scagliato nemmeno un bottone, non soltanto verso agenti o militari, ma nemmeno verso studenti di opposte fazioni che, nella Roma degli anni di piombo era facile incontrare, a destra e a sinistra, per i quartieri della capitale. Il 16 marzo 1978, il sottoscritto come ha più volte ammesso, idiota fino all’inverosimile, con l’attenuante – o aggravante a seconda dei punti di vista – di essere appena diciassettenne e straordinariamente ignorante, alla notizia del sequestro del presidente della Dc Aldo Moro e del massacro della sua scorta, ebbe un sussulto di esaltazione subito represso da un collega di lavoro che lo redarguì dandogli dell’imbecille. Aveva ragione. Più tardi, guarda il destino che cosa combina, l’ex suocero di colui che scrive sarebbe stato il fratello di Domenico Ricci, all’epoca autista di Aldo Moro trucidato senza pietà mentre, quella mattina in via Fani, cercava di andare avanti e indietro con l’auto bloccata tra la Fiat 128 targata CD con, alla guida, Mario Moretti e l’Alfetta della scorta.
Glielo raccontò, questo particolare dell’avanti e indietro con la faccia inchiodata sul volante e la mano sulla manopola del cambio, anni più tardi Raffaele Fiore, uno dei componenti il commando di fuoco che partecipò alla strage e che l’autore di queste righe ha raccontato nel suo libro L’ultimo brigatista.
Da allora molti anni – e che anni – sono passati sotto i ponti di una lunga esistenza giunta, ormai, al suo 56° rintocco. Anni nei quali se non è scomparso l’ardire e non si è dileguata la voglia di provocare, di sicuro è sparita quella ignoranza che aveva partorito quell’aborto di esclamazione in una lontanissima mattina della primavera di 39 anni fa.
Anni in cui, grazie anche ad una frequentazione pressoché quotidiana per ragioni di carattere professionale, chi scrive ha imparato a conoscere e, spesso, anche a giudicare il comportamento di uomini che, sia pure con una divisa addosso, avevano e hanno pregi e difetti come tutti i loro simili noi compresi.
Ha, così, fugato anche molti luoghi comuni che, durante la sua gioventù, politicanti in erba poi divenuti famosi e lautamente pagati con soldi della collettività e un bilancio proprio e fuori da ogni controllo come quelle parlamentare, avevano diffuso a piene mani rovesciando tonnellate di merda addosso a chiunque vestisse una uniforme e arrivando, grazie alle simpatie di un’area di contiguità estesa a sinistra, a tollerare quando non, addirittura, a giustificare, aggressioni e anche qualcosa di più.
Oggi, a distanza di così tanto tempo, esiste ancora, purtroppo, soprattutto, negli ambienti della sinistra radical choc e in quelli intellettuali o dell’intelligencija verniciata di rosso, la convinzione che un carabiniere o un poliziotto siano dei falsi e dei figli di puttana a prescindere.
E questo nonostante non passi giorno, ma che dico?, ora, ma che aggiungo, minuto senza che coloro chiamati a tutelare la nostra sicurezza vengano umiliati, dileggiati, sospesi, sputtanati, massacrati, esiliati, trasferiti soltanto per aver fatto una minima parte di quello che, se fossimo noi al loro posto, faremmo, ossia sbarazzarci dei criminali che, questa è la verità, fanno quel che vogliono, quando vogliono, come vogliono e quanto vogliono. E badate bene che esistono anche i criminali in giacca e cravatta, ma anche questi appartengono a quella fetta minuscola, ma detentrice del potere, di una società che non ha problemi con la delinquenza per il semplice fatto di essere privilegiata: nel censo, nella professione, nelle origini, nella forza più o meno bruta. E che, quindi, ben poco sa e ancora meno è interessata a sapere cosa vive la maggioranza delle persone quella, per intenderci, che ragione con la pancia.
Assistiamo inermi e inerti al dilagare di una violenza che tende non soltanto a sopprimere ogni anelito di sicurezza, ma anche ogni aspirazione di libertà, di giustizia, di eguaglianza. Impotenti siamo costretti a vedere rovesciare il buonsenso, uccidere l’evidenza, trionfare la tracotanza, prevalere la paura. E se qualcuno, in divisa, prova a essere quello che dovrebbe essere, una sorta di giustiziere non della notte, per carità e magari per noi, ma, semplicemente, di coloro che sono indifesi in questa quotidiana e impari lotta per la sopravvivenza, eccolo che viene spulciato e spennato nemmeno fosse un pollo destinato allo spiedo. Si spacca il capello in quattro per metterlo alla gogna spingendo, questo sì, ma davvero, la vergogna più in là, finendo per togliere alle forze dell’ordine non solo la voglia di rischiare, ma anche quella di fare il proprio lavoro.
E questa invasione a cui siamo sottoposti per i desiderata di una classe politica bastarda e senza dignità, dei pittori di un disegno sovranazionale mirante a creare l’Uomo senza Identità, finisce, soprattutto, per investire loro, carabinieri e polizia, che saranno e sono già, con gli altri uomini e donne in uniforme, i primi a pagare il prezzo più alto.
Ecco perché il sottoscritto, pur con tutti i dubbi, pur con tutte le cautele, pur con tutti i se e i ma, si rende conto che arriva un momento, nella vita, in cui bisogna scegliere da che parte stare e a niente serve stare nel mezzo convinti di essere dalla parte giusta. Non si può sempre e soltanto guardare, ma bisogna, a volte, avere il coraggio di metterci la faccia, costi quel che costi. Non ne va solo del nostro futuro, ma, in particolare, di noi stessi e dell’immagine che lo specchio, ogni mattina al nostro risveglio, accoglie la nostra faccia.