Il Tempo con un editoriale a firma di Alessandro Meluzzi ha dedicato un articolo all’Arma dei carabinieri, prendendone le difese a spada tratta. “A chi ha deciso di dedicare una sala del Senato della Repubblica alla memoria di Carlo Giuliani, caduto gloriosamente durante i fatti di Genova, andrebbe ricordato quanto può essere doloroso per un carabiniere prendere sui denti un estintore lanciato in faccia a tutta forza. Effettivamente se guardiamo i dati degli incidenti sul lavoro dei Carabinieri i numeri sono impressionanti. Si arriva fino a 6 morti caduti sul campo nell’ultimo anno, e ha più di 6000 feriti.
Insomma, il risultato di una battaglia. D’altra parte il mestiere della sicurezza non può non comportare qualche rischio ma ciò che più colpisce è l’atteggiamento culturale nei confronti di questi servitori dello Stato che per uno stipendio, inferiore a quello di un camionista, rischiano tutti i giorni la vita per garantire a tutti noi sicurezza e protezione dai rischi inenarrabili. Queste forze dell’ordine, alle quali il Paese dovrebbe stringersi con forza e coerenza, sono spesso oggetto di critiche feroci. Non che la legge non debba essere uguale per tutti ma altro è pensare di glorificare addirittura con la toponomastica di una vita, come ha pensato di fare un consiglio di circoscrizione di Roma, a Stefano Cucchi, morto durante una vicenda che ha coinvolto carabinieri, agenti di polizia penitenziaria e medici del pronto soccorso.
Via Cucchi che cosa dovrà citare sulla targa? Geometra? Disoccupato? Spacciatore di sostanze? Vittima delle forze dell’ordine? Come spesso accade nella vita, la sintesi delle ragioni di essere di qualcuno, cui si è pensato di dedicare una targa, è una schematizzazione che tende a condensare la complessità di un essere umano in una definizione icastica. Per questo, prima di dedicare una via, bisognerebbe pensarci due volte perché colui a cui la si dedica dovrebbe rappresentare un modello di virtù umane, civili, esistenziali. Cosa che il geometra Cucchi non è per mille e una ragione.
Morire per un incidente o per mano di uomini in divisa non è una ragione sufficiente per diventare un modello. Se così fosse, a Pamela Mastropietro dovrebbe essere dedicato lo sferisterio di Macerata. Per non parlare di Desirée Mariottini che potrebbe essere la toponomastica di Via del Corso. Questa dimensione del martirio politicamente corretto che fa di un fatto che dovrebbe unire gli italiani un elemento divisivo è uno stile della sinistra radical chic che certamente non ci piace, anzi ci fa indignare, come tutte le forme oscene di vittimismo, colpevolizzante, di altri che, quando però investe le forze dell’ordine, ci fa arrabbiare due volte di più.
Questi uomini che cadono ogni giorno sulle strade, di fronte ad un clima di criminalità diffusa, rappresentano scene intollerabili. Ce lo racconta bene un’immagine web in cui un gigantesco spacciatore tunisino riesce a tenere in scacco, a calci e pugni, sei o sette poliziotti che cercano di arrestarlo: il tunisino, salito sul tetto di una macchina, riesce a scappare Non perché i poliziotti fossero ebeti ma perché si comportavano con la stessa prudenza che usano oggi i medici e infermieri in un reparto qualsiasi attraverso la cosiddetta medicina difensiva. Lo spacciatore o l’assassino va fermato, ma bisogna fare attenzione a non lasciare nessun livido perché altrimenti il giudice di turno, che lo scarcera dopo 24 ore, condannerebbe immediatamente per reato di tortura il poliziotto coinvolto.
Noi dobbiamo essere straordinariamente solidali con questi nostri fratelli in divisa perché, nonostante il buonissimo melenso, ogni giorno non rinunciano ad offrire un sacrificio che riguarda tutti noi. Guai a noi se la loro sopportazione dovesse arrivare al punto in cui loro decidono di congiungere le braccia per un’ingnavia che fino ad oggi non hanno dimostrato, lasciando che ognuno se la cavi da sè. Quando una certa sinistra buonista ci avrà portato a questo punto per la Repubblica, già gravemente scossa fino alle radici, sarà finita.