Germania, pensioni in affanno: paghetta di 10 euro al mese ai bambini da destinare alla previdenza. E l’Italia?
Un autunno di riforme (forse)
Il Cancelliere tedesco Friedrich Merz ha annunciato un “autunno di riforme”, promettendo di affrontare una delle questioni più esplosive della politica europea: la sostenibilità del sistema pensionistico. Berlino punta tutto su un’idea simbolica e al tempo stesso innovativa: il Kinderstartgeld, ribattezzato Frühstart-Rente. Dal 1° gennaio 2026, lo Stato dovrebbe versare 10 euro al mese per ogni bambino dai 6 ai 18 anni, vincolati a un fondo pensione che maturerà fino all’età pensionabile.
Un’idea che richiama il modello israeliano e che, nelle intenzioni, dovrebbe avvicinare i giovani tedeschi al mercato dei capitali. Ma i numeri raccontano una realtà meno rosea: 84 milioni di euro l’anno per finanziare i versamenti, in un bilancio già in rosso di 172 miliardi nel triennio 2027-2029.
Dieci euro al mese: simbolo o soluzione?
Dieci euro al mese possono sembrare un inizio, ma restano più un gesto politico che un investimento strutturale. Con un rendimento medio del 7% annuo sul DAX, dopo 50 anni il “tesoretto” arriverebbe a circa 50.000 euro: una somma che difficilmente potrà sostenere decenni di pensione.
Non a caso, economisti tedeschi come Stephan Leithner hanno proposto alternative più robuste: uno Startkapital di 4.000 euro alla nascita. Ma le casse pubbliche non reggono. L’altro scenario, non detto ma evidente, è un inevitabile allungamento dell’età lavorativa: nel 1960 cinque lavoratori sostenevano un pensionato, nel 2035 saranno solo due.
Italia: il contributivo che pesa sulle carriere fragili
Se in Germania si discute di “paghette previdenziali”, in Italia il sistema contributivo puro mostra le sue crepe. La pensione dipende dall’ammontare dei contributi accumulati e dal coefficiente di trasformazione legato all’età di uscita. Ma per molti italiani, la carriera è un mosaico di contratti precari, salari bassi e lunghi periodi di disoccupazione.
Il risultato? Pensioni che spesso non coprono il costo della vita, tanto che diventa indispensabile integrare con fondi pensione complementari o chiedere una pensione supplementare.
Contributi ballerini e assegni leggeri
Il problema italiano sta tutto nella bassa copertura contributiva:
- Carriere discontinue: stop & go lavorativi riducono il montante.
- Retribuzioni basse: i contributi accumulati restano minimi.
- Professioni con versamenti limitati: alcune categorie non raggiungono soglie dignitose.
- Massimale contributivo: chi guadagna di più non può comunque incrementare oltre un certo tetto.
Così, mentre il coefficiente di trasformazione promette rendite migliori se si va in pensione tardi, nella pratica molti italiani arrivano a fine carriera con un montante insufficiente.
Difesa e Sicurezza: i dimenticati della previdenza complementare
C’è un comparto che più di tutti paga il prezzo della riforma Dini del 1995: quello di Difesa e Sicurezza. Militari, carabinieri, finanzieri e poliziotti hanno subito il passaggio dal metodo retributivo al contributivo (o misto) con la stessa perdita economica di tutti gli altri lavoratori – circa 200-300 euro in meno al mese sull’assegno pensionistico – ma senza poter accedere al correttivo previsto dalla stessa legge: la previdenza complementare.
Il legislatore aveva infatti introdotto, per compensare la riduzione degli assegni, i fondi pensione integrativi nei quali far confluire il TFR, ma solo per Forze Armate e Corpi di Polizia la norma fu subordinata all’emanazione di regolamenti specifici mai arrivati. Così, mentre insegnanti, impiegati pubblici, operai e persino autonomi hanno potuto aderire a fondi integrativi, chi indossa una divisa è rimasto escluso.
Una disapplicazione clamorosa e ingiustificata, che si trascina da quasi trent’anni e che nessun governo – di qualunque colore – ha mai avuto il coraggio o la volontà di risolvere, nemmeno quando, con la legge 214/2011, si impose entro giugno 2012 l’adozione di un regolamento ad hoc per trasformare il TFS in TFR e permettere l’accesso ai fondi.
Nulla è stato fatto. Il risultato è che la riforma Dini per il comparto Difesa e Sicurezza è rimasta una riforma a metà, applicata solo nella parte peggiorativa: pensioni più basse senza alcun paracadute integrativo, in aperta violazione del principio di equità. È il paradosso italiano: chi rischia la vita per garantire sicurezza ai cittadini e stabilità allo Stato, viene trattato come un lavoratore previdenzialmente di serie B, penalizzato da un’inerzia politica che dura da tre decenni e che continua a pesare sulla pelle dei servitori in uniforme.
La vera sfida
Il paradosso è che mentre Berlino prova a comprare tempo con dieci euro al mese, Roma continua a chiedere ai suoi pensionati futuri di fare da soli. In entrambi i casi, la promessa è una sola: senza crescita economica e senza riforme strutturali, il futuro rischia di essere più povero del presente.
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