Forze Armate, il tono arrogante verso un superiore è insubordinazione con ingiuria.
Il ricorrente, un Maggiore dell’Esercito, ha inviato due lettere al comandante, con le quali – per le frasi utilizzare e per il contenuto, dai toni complessivamente sprezzanti – offendeva il prestigio, il decoro e la dignità personale e professionale del superiore.
In primo grado, il Tribunale militare ha assolto l’imputato perché il fatto non costituisce reato. In secondo grado, la Corte militare d’Appello ha assolto l’imputato con la medesima formula.
La sentenza della Suprema Corte di Cassazione
La tutela dell’ascendente morale del comandante
Per costante indirizzo ermeneutico della Corte di legittimità, nel reato militare di insubordinazione con ingiuria, integra l’offesa all’onore e al prestigio ogni atto o parola di disprezzo verso il superiore gerarchico nonché l’uso di tono arrogante (che nel diritto comune non viene preso in considerazione), perché contrari alle esigenze della disciplina militare, per la quale il soggetto di grado più elevato deve essere tutelato, non solo nell’espressione della sua personalità umana, ma anche nell’ascendente morale di cui ha bisogno per un degno esercizio dell’autorità del grado e della funzione di comando.
Inoltre, è pacifico che per la sussistenza di tale delitto è sufficiente il dolo generico, e cioè la cosciente volontà di pronunciare parole o di compiere gesti di univoco significato offensivo, non richiedendosi anche l’animus iniurandi, tutelando tanto la dignità e l’onore del “superiore” quanto l’integrità e l’effettività del rapporto gerarchico, funzionale al mantenimento della disciplina e della compattezza delle forze armate.
Tali nozioni – secondo la Suprema Corte – sono state solo formalmente osservate, ma in realtà disattese, dalla Corte di secondo grado. Ciò perché la Corte Militare di Appello da un lato ha, in modo condivisibile, ritenuto che le due lettere (vergate a distanza inferiore ad un mese) fossero espressione di un medesimo ‘intento reattivo’ del Maggiore ad una condotta del superiore definita ‘assillante’ (ma non illegittima), dall’altro ha ritenuto di estendere alla seconda manifestazione verbale non già l’assenza di ‘dolo specifico’ quanto l’assenza di ‘percezione concreta della misura sensata delle parole’, quasi attribuendo al Maggiore una condizione di alterazione psichica (indotta dal contesto) transitoria, tale da determinare un errore percettivo sul significato offensivo delle parole utilizzate.
Ciò posto, ritiene il Collegio che in un contesto istruttorio come quello offerto dalle due decisioni di merito, sia del tutto superfluo il rinvio, potendosi ritenere direttamente applicabile la speciale causa di non punibilità di cui all’art. 131 bis cod.pen, (Esclusione della punibilità per particolare tenuità del fatto) di cui ricorrono ampiamente i presupposti. In particolare, l’offesa – complessivamente considerata – può essere ritenuta di particolare tenuità proprio in ragione della modesta intensità del dolo, posto che la condotta tenuta dal Maggiore era da ritenersi, almeno in parte, riconducibile ad un comportamento tenuto dal colonnello – per quanto non certo illegittimo, essendo emerse criticità sulla fruizione permanente dell’alloggio OPS – aveva in concreto determinato, per le modalità utilizzate, un crescente stato di disagio nella persona del Maggiore, anche in ragione del ruolo da costui ricoperto all’interno della struttura.