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IL GENERALE DALLA CHIESA RACCONTATO DAI SUOI CARABINIERI: GLI INFILTRATI, LE OMBRE, LO SMANTELLAMENTO DEL TEAM

C’è
stato un periodo speciale nella storia d’Italia in cui degli uomini speciali
hanno fatto cose speciali. Erano gli anni Settanta, quelli erano gli uomini del
generale Carlo Alberto dalla Chiesa che hanno combattuto e vinto la guerra
contro le Brigate Rosse. «Eravamo brutti e trasandati – racconta «Trucido» -, i
capelli lunghi, i jeans, le scarpe da ginnastica.

Non potevamo avere una
fidanzata perché non potevamo dire nulla della nostra vita. Mia mamma
telefonava spesso in caserma per avere mie notizie, ma non potevano dirle
niente. E capitava, quando andavo a trovarla, che qualcuno vedendomi facesse dell’ironia:
ma quale carabiniere…» . 


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«Trucido»
è Pasquale Vitagliano che da cronista ho conosciuto bene in quegli anni e che
adesso faccio un po’ fatica a riconoscere nel ritratto che ne esce da questo
bel libro di Fabiola Paterniti che si intitola «Tutti gli uomini del generale».
È un pezzo di storia inedita della lotta al terrorismo, edito dall’editore
Melampo e sarà presentato oggi a Milano. Il «Trucido» che riappare dalla sua
tranquilla vita di pensionato a Benevento è un uomo compiuto ma amaro, molto diverso
dal Pasquale di quegli anni, un ragazzo che sprizzava vitalità, fiducia,
persino una contagiosa allegria. Era difficile vederlo negli ufficetti al piano
rialzato della caserma di via Valfrè; più facile incrociarlo nelle assemblee
studentesche o ai cancelli della Fiat. Adesso si sente lo scarto tra allora ed
oggi, e non è solo un fatto di età: «Ho creduto in questo Stato, lo abbiamo
servito e riverito anche se il Paese si è dimenticato di noi. Ma rifarei
tutto». 
Ed è
questo il filo che percorre le testimonianze degli «uomini del generale». Ma
attenzione: non è un lamento qualunquista, piuttosto l’amarezza dei soldati che
sono stati in prima linea e hanno visto progressivamente smontata da burocrati
e politicanti una squadra che si è sentita colpita dagli stessi proiettili che
hanno poi ucciso Dalla Chiesa a Palermo: «Abbandonato non dallo Stato – dice un
altro degli ex, Domenico Di Petrillo, detto “Baffo” –, perché io credo nello
Stato, ma da mascalzoni investiti di responsabilità pubbliche». Dalla Chiesa
non era solo l’inventore e il capo del Nucleo Speciale, ma ne era insieme
l’anima e il corpo, vista la dedizione fisica con cui ci lavorava, giorno e
notte. I suoi uomini non solo lo rispettavano, ma lo veneravano. E quando si
incontravano – ne sono testimone – dopo il saluto militare d’ordinanza, alla
stretta di mano, guardandosi negli occhi, alcuni sussurravano con dedizione
totale: «Mio generale…». 
Gian
Paolo Sechi, allora giovane capitano, che fu il suo uomo a Torino, ricorda così
il reclutamento: «Io li cercavo alla scuola per sottufficiali di Firenze,
naturalmente non dovevano essere sposati, né avere legami particolari.
Preparavamo documenti falsi, li facevamo diventare studenti, operai, li
mettevamo a lavorare alla catena di montaggio di Mirafiori. Insegnavamo loro a
vivere come brigatisti, i libri da leggere, eschimo e giornali in tasca…
Avevamo ispettrici di polizia che fingevano di far la tesi di laurea per spiare
i vicini di banco…» . 
A
Torino c’erano otto o nove infiltrati. Il più famoso di tutti Silvano Girotto,
frate mitra, il francescano reduce dalle guerriglie sudamericane, che nel ’74
fece arrestare a Pinerolo Renato Curcio e Alberto Franceschini. Il Nucleo era
appena stato costituito su iniziativa di Dalla Chiesa e Sechi ricorda che aveva
già tanti nemici. La stessa operazione di Pinerolo venne affrettata perché una
talpa al Viminale aveva diffuso dettagli riservatissimi.

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Nonostante i risultati
il Nucleo venne sciolto nel ’75, senza nessun motivo apparente se non l’invidia
che suscitava il lavoro di Dalla Chiesa. «Avremmo potuto radere al suolo
l’organizzazione allora, ma non ci fu consentito. Un errore che ha pesato sulla
storia d’Italia», dice ora Sechi, generale in pensione. E Gian Carlo Caselli,
che da giudice istruttore fu molto vicino a Dalla Chiesa, la pensa più o meno
nello stesso modo: «Non faccio dietrologie sulla chiusura del Nucleo, ma è
chiaro che non erano amati, erano troppo bravi e troppo autonomi». Aggiunge Di
Petrillo: «Vorrei scrivere un libro: con quali costi umani e professionali si è
fatto l’antiterrorismo. Eravamo un corpo d’élite». All’indomani dell’operazione
Moro, nell’estate del ’78, il nucleo viene ricostituito con il sigillo del
presidente del Consiglio Giulio Andreotti.  

Affiorano
sospetti di connivenze se non di complicità dei terroristi con mondi
intellettuali e politici. Sechi ricorda famiglie bene di Torino finite sotto
osservazione del Nucleo per l’attivismo dei figli non osteggiato dai padri;
come pure la testimonianza di Franco Piperno che rivelò di aver incontrato
Mario Moretti (il capo Br che gestì l’operazione Moro) nell’estate del ’78
(dunque dopo la conclusione di quella tragedia) in un appartamento alto
borghese di piazza Cavour a Roma. Eppure un altro uomo del Nucleo, il generale
Alessandro Ruffino, detto il «Principino», afferma con sicurezza che «dietro le
Br c’erano solo le Br. Nessuno voleva ammetterlo ma vi erano solo ragazzi
italiani cresciuti nelle nostre scuole… Nessun collegamento con i servizi
stranieri è mai stato provato. Era molto difficile individuarli: i brigatisti
non hanno mai arruolato nessuno con precedenti penali o noto alla polizia, tra
loro c’era molta gente che proveniva da famiglie per bene». 
Gli
infiltrati sono stati una leva fondamentale. Di Petrillo fa anche una
rivelazione: «Nel ’79, dopo l’omicidio del sindacalista Guido Rossa a Genova,
Ugo Pecchioli, ministro dell’Interno ombra del Pci, contattò Dalla Chiesa per
offrirgli un uomo da infiltrare, un militante operativo. Era un vero militante
d’altri tempi. Per gli incontri andavamo a pranzo in una trattoria fuori Roma e
pretendeva di pagare il suo conto. Grazie a lui siamo riusciti a dare la
mazzata decisiva alla colonna romana nel maggio 1980. Tuttora nessuno sa il
nome di quel militante, non l’abbiamo detto neanche ai magistrati: gli
arrestati di allora sono tutti fuori e le vendette sempre possibili». 
Anche
Gian Carlo Caselli ha una rivelazione da fare. «Quando Patrizio Peci (arrestato
nel febbraio 1980 dagli uomini di Dalla Chiesa in piazza Vittorio a Torino)
cominciò a collaborare furono avvertiti tutti: polizia, carabinieri, servizi
segreti. E sembra che – certezze non ne ho – i servizi volessero farlo evadere
dal carcere di Cuneo con un elicottero: follia pura, non avremmo avuto le sue
rivelazioni e si sarebbe aggiunto un mistero ai tanti misteri italiani». 

Questi
uomini non erano numerosi, ma come raccontò poi Dalla Chiesa alla Commissione
Moro, «lasciai che girassero le voci più fantasiose sulla consistenza del
Nucleo perché ci credessero più forti di quanto eravamo… E quando il lavoro è
finito non ho voluto né premi né medaglie per i miei uomini”. 

di Cesare Martinetti

[FONTE]

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