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PADRI E FIGLI INSIEME IN MISSIONE, COME LA VIVONO? «UN PO’ D’ANSIA QUANDO ESCONO, POI PREVALE L’ADDESTRAMENTO»

L’AQUILA.
Il momento più difficile, quello in cui probabilmente i luogotenenti Franco
De Dominicis
 e Angelo Botti dimenticano di essere
militari dell’Esercito e restano padri al cento per cento, è quando vedono i
figli Giuseppe e Matteo prepararsi al mattino nelle
camerate dei container della base di Millevoi di Shama, nel Libano del sud, per
uscire in pattuglia.

Mentre
i due giovani indossano con rigorosa attenzione l’equipaggiamento previsto, il
cuore dei padri si riempie di apprensione. Ma è l’emozione di un attimo,
un pensiero lampo che lascia spazio subito alla disciplina e al sangue freddo
che sempre ci vuole quando si lavora in missione in una terra martoriata da
decenni di conflitti civili ed esterni, un Paese dalla pace volatile come il
Libano, circondato da altri popoli e terre calde, come la Siria, Israele e con
il pericoloso Isis che soffia sui confini. «Siamo stati addestrati per
questo”», spiega De Dominicis dall’altro lato del telefono, a migliaia di
chilometri di distanza. 
Lui
e il collega Botti sono fra i duecento Alpini abruzzesi della task force
italiana Italbatt, composta dal personale del Reggimento “Nizza Cavalleria”
rinforzato dal Battaglione Alpini “ L’Aquila” (che proviene dal Nono
Battaglione Alpini che all’Aquila intanto prosegue le sue attività), che
opererà per un semestre nell’area che va dalla Blue line _ zona di frontiera
tra il Libano e Israele _ e l’area costiera a sud di Tiro, nell’ambito della
risoluzione Onu 1701. In questa 19° turno di missione da quanto Unifil è
stato avviato nel 2006, s’intrecciano storie di padri e di figli, come quella
di Franco De Dominicis, 52 anni, originario di Valle Castellana in provincia di
Teramo, alla sua decima missione all’estero, e il figlio Giuseppe, 26 anni,
alla sua prima missione in assoluto. 
E
poi quella di Angelo Botti, 52 anni nato a Roma ma ormai aquilano d’adozione,
in totale tre figli militari di cui uno, il 31enne Matteo, con lui nella base
di Millevoi. S’incontrano, si salutano, un caffè insieme al mattino quando
dice bene, e poi ciascuno per la propria strada, a fare il proprio specifico
lavoro. Il luogotenente De Dominicis è capo cellula Camp Site,
responsabile della gestione dell’accampamento e in Italia sottoufficiale di
Corpo. «Per me avere un figlio militare è un orgoglio», dice, «sento la
responsabilità che i valori della nostra famiglia proseguano con mio figlio. Quando
me ne andrò in pensione con lui rimarrà, oltre a una parte del mio cuore, anche
una parte della mia famiglia». In Italia, però, c’è una mamma e moglie che
aspetta. «E’ contenta che io e mio figlio siamo in missione insieme,
perché gli posso stare vicino, si sente più tranquilla oltre che orgogliosa». 
Il
figlio Giuseppe è conduttore e soccorritore con la 119ma compagnia in Italbatt;
ha l’entusiasmo tipico di un giovane nemmeno 30enne che, però, in Italia ha
lasciato la moglie, anche lei nell’Esercito come paracadutista della Brigata
folgore. «Avere un padre militare», spiega, «mi ha permesso di conoscere
dall’interno un mondo che altrimenti avrei visto solo superficialmente».Chissà
cosa starà pensando invece la moglie del luogotenente Botti, che di figli
militari ne ha tre.Botti ha diverse missioni estere alle spalle, in Libano è
arrivato il 3 aprile scorso. «Andrò via a fine mese, resterà qui invece
mio figlio», spiega mentre saluta Matteo appena uscito in pattuglia per le
strade delle città libanesi, penna nera su casco blu. «Non mi aspettavo di
ritrovarlo qui», racconta, «e quando vedo che si prepara ho un tuffo di ansia,
di apprensione paterna, è normale che sia così…». 

A
Shama il luogotenente è responsabile del cerimoniale in caso di visite
internazionali o nazionali, o di associazioni libanesi e rappresentanti
politici. Il figlio Matteo ha lasciato a casa un bimbo di tre anni, che
rivedrà fra sei mesi magari un po’ cresciuto e più loquace. La sua vita da
militare è cominciata nel 2004 al Nono Reggimento Alpini. Ha alle spalle
già missioni in Afghanistan. «Ho sempre sentito questo lavoro come mio, è
stato un percorso professionale e umano quasi naturale», racconta prima di
uscire in pattuglia fino a mezzanotte. E la mamma? «Lei riesce a
sopportarci e supportarci tutti». Una donna di altri tempi, insomma,
quando tutti gli uomini di famiglia erano destinati alla vita militare per una
fetta importante della loro vita.

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