Cassazione: i buoni pasto non sono un benefit, ma un diritto dei turnisti
(di Avv. Umberto Lanzo)
La battaglia legale degli infermieri turnisti
Gli infermieri professionali turnisti dell’Azienda Sanitaria Provinciale di Messina hanno portato avanti una causa che oggi segna un precedente importante. Il nodo era chiaro: il Regolamento interno prevedeva il servizio mensa o i buoni pasto solo per il personale non turnista con rientro pomeridiano, escludendo chi garantisce la copertura dei turni ospedalieri senza interruzioni.
Dopo una prima sconfitta, la Corte d’appello aveva riconosciuto il diritto dei lavoratori a ricevere i buoni pasto per ogni turno superiore alle sei ore. L’Azienda Sanitaria Provinciale non si era arresa, portando il caso in Cassazione.
La sentenza n. 25525/2025
Il 17 settembre 2025 la Corte di Cassazione, Sezione Lavoro Civile (Presidente Lucia Tria, relatore Guglielmo Garri) ha respinto il ricorso dell’Azienda Sanitaria Provinciale di Messina.
La Suprema Corte ha confermato che il diritto al pasto scatta automaticamente quando l’orario giornaliero supera le sei ore, indipendentemente dalla natura del turno o dall’organizzazione aziendale. Se il servizio mensa non è fruibile, subentra l’obbligo di erogare il buono pasto sostitutivo.
Non un benefit, ma una tutela della salute
Il cuore della decisione è fortemente simbolico: il buono pasto non è un benefit opzionale, ma una misura assistenziale volta a garantire il benessere fisico e la capacità del lavoratore di proseguire la prestazione.
La Corte ha richiamato precedenti consolidati (Cass. n. 5547/2021, n. 32113/2022, n. 22478/2024), sottolineando che l’intervallo per il pranzo, oltre le sei ore, è un diritto previsto sia a livello contrattuale (art. 29 CCNL sanità 2001) che legislativo (art. 8 D.L. 66/2003).
Il prezzo della resistenza giudiziaria
La decisione ha un impatto anche economico: l’Azienda Sanitaria Provinciale di Messina è stata condannata a pagare 8.000 euro di compensi legali, 200 euro di esborsi, oltre al 15% per spese generali e accessori di legge.
A ciò si aggiunge il contributo unificato aggiuntivo previsto dal DPR 115/2002, che aggrava ulteriormente i costi per l’ente soccombente.
Un monito chiaro: insistere contro diritti ormai consolidati può rivelarsi molto oneroso.
Oltre la sanità: una lezione che vale anche per chi indossa la divisa
La sentenza della Cassazione non si ferma ai corridoi degli ospedali messinesi. Il suo eco corre più lontano, fino alle caserme, alle questure, ai comandi dove uomini e donne in divisa lavorano spesso in turni massacranti, senza pause reali e con un pasto ridotto a panino consumato in pochi minuti.
È vero: il comparto sicurezza e difesa non rientra nel pubblico impiego privatizzato e quindi non può beneficiare automaticamente dell’applicazione di questo orientamento. Eppure, il principio è dirompente: un pasto non è un lusso, ma una condizione minima di dignità e di tutela della salute del lavoratore.
Se per gli infermieri la Cassazione ha messo nero su bianco che “il diritto al pasto non può essere sacrificato all’organizzazione del servizio”, lo stesso ragionamento potrebbe – e forse dovrebbe – ispirare una riflessione sul modo in cui vengono trattati i servitori dello Stato che garantiscono ordine pubblico e sicurezza. Perché un poliziotto in turno notturno di dodici ore o un vigile del fuoco bloccato su un’emergenza hanno esigenze non meno vitali di quelle di un infermiere in reparto.
Il segnale è chiaro: il lavoro turnista non deve trasformarsi in lavoro disumano. La Cassazione, con questa decisione, ha tracciato un solco che va oltre i confini del contratto collettivo della sanità e apre un dibattito più ampio: la tutela del diritto al pasto come tutela del diritto alla salute. E da oggi, chiunque lavori per lo Stato in condizioni straordinarie e usuranti potrebbe guardare a questa sentenza non come a un precedente tecnico, ma come a un faro.
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