L’autista di Falcone: “Io dimenticato per 23 anni, stufo delle solite passerelle”
“In Italia per essere presi in considerazione occorre morire. Io disgraziatamente sono rimasto in vita e oggi do fastidio perché dico ciò che penso e non quello che vogliono che io dica”. La strage di Capaci per Giuseppe Costanza, l’autista del giudice Giovanni Falcone scampato al tritolo di Cosa nostra, ha segnato l’inizio di un oblio lungo 23 anni. “Dopo 18 mesi tornai a lavoro, mi aspettavo un’accoglienza diversa e, invece, non sapevano cosa farsene di me. Mi misero in uno sgabuzzino, un piccolo ufficio con le pareti in cartongesso ricavato in un corridoio”, racconta all’Adnkronos. Gli diedero la medaglia d’oro al valor civile e lo assegnarono all’ufficio autoparco. “Entravo, timbravo il cartellino e aspettavo l’orario di uscita. Nessun ordine di servizio. Un incubo. Mi incatenai davanti al tribunale, fu a quel punto che si accorsero che Giuseppe Costanza era vivo. E stato il periodo più brutto della mia vita, altro che bomba… Dopo 10 anni non ce l’ho fatta più e me ne sono andato”.
Oggi Costanza gira l’Italia, va nelle scuole per raccontare ai ragazzi gli anni bui delle stragi e parlare di quel giudice “isolato e delegittimato dalle stesse istituzioni che oggi lo esaltano”. “In vita Falcone ebbe più nemici che amici, fu abbandonato e tradito. Fu accusato persino di essersi messo da solo la bomba del fallito attentato all’Addaura per fare carriera. Il Csm bocciò la sua candidatura alla guida dell’ufficio Istruzione di Palermo preferendogli Antonino Meli, che di mafia non sapeva nulla e che smantellò il pool antimafia. Questa è la verità – scandisce lentamente -. Invece, ogni anno assistiamo alle solite passerelle, vengono qui, salgono sul palco e tutto finisce lì. Non si alza il tiro sui mandanti, siamo ancora alla manovalanza”. Da 28 anni Giuseppe Costanza aspetta la verità. “La avremo forse tra 50 anni – dice -, quando non ci sarò più io e neppure i responsabili di quell
“Sono stufo di sentire dire che la mafia è solo Riina, Provenzano e Messina Denaro, che furono loro ad avere l’idea di imbottire l’autostrada di esplosivo. Falcone a Roma camminava senza scorta, avrebbero potuto eliminarlo là. Invece, lo hanno fatto a Palermo con una manifestazione eclatante. Una sceneggiata, un depistaggio, un’intimidazione per far piegare qualcuno ai voleri di chi quella strage l’aveva ideata. Ci vogliono professionisti per far saltare in aria un’autostrada, altro che Totò Riina e Bernardo Provenzano… Pezzi dello Stato e delle istituzioni che agirono nell’ombra e che sfruttarono quella manovalanza”. La settimana prima dell’attentato di Capaci il giudice Falcone confidò a Costanza una notizia non ancora ufficiale e che doveva rimanere riservata. “Mi disse che sarebbe diventato il procuratore nazionale antimafia e che avrebbe istituito un ufficio a Palermo – ricorda -. Aggiunse che ci saremmo spostati con l’elicottero ed era necessario che prendessi il brevetto per pilotarlo. Si fidava di me… Per me dietro la strage c’è proprio quella nomina”.
Lo scorso anno Costanza è stato sentito per la prima volta dalla commissione nazionale Antimafia. Ha ricostruito gli otto anni passati con il giudice. “Avevo chiesto di essere ascoltato nel 1998 ma quella istanza è rimasta per 27 anni lettera morta…”. Per molto tempo l’autista di Falcone, l’uomo con cui il giudice aveva un rapporto strettissimo di stima e di fiducia (“Comunicava a me e non alle istituzioni i suoi spostamenti”) è stato dimenticato. “Sono stati 23 anni di silenzio istituzionale, non mi hanno né invitato né cercato – dice -. Un giorno mentre in tv guardavo le manifestazioni in occasione dell’anniversario della strage mio nipote mi ha detto: ‘Nonno, ma non c’eri pure tu a Capaci? Perché non sei insieme a loro? E’ stato un pugno nello stomaco. E stato allora che ho deciso di far sentire la mia voce”.
A lungo ha dovuto convivere con il senso di colpa per essere scampato all’attentato. “Mi è stato detto che se fossi stato al mio posto, Falcone si sarebbe salvato e sarei morto io. Una bugia. Se alla guida ci fossi stato io sulla linea di fuoco sarebbero arrivate tutte e tre le auto e oggi piangeremmo nove vittime, invece che cinque”. Negli anni passati accanto al giudice ha imparato a convivere con la paura. “Ogni volta che uscivo di casa non sapevo se avrei riabbracciato i miei cari – ammette -, ma non avrei mai mollato Falcone. Ho rischiato la mia vita e non per soldi certamente, ma perché vedevo il suo impegno e la sua necessità di avere accanto persone di cui fidarsi e io ero uno di questi. Tornando indietro lo rifarei”.
Del giudice ricorda “la sua voglia di vivere”. “Mi diceva che gli sarebbe piaciuto poter passeggiare nella sua città senza la scorta, come un cittadino normale. Invece, era un ergastolano”. Le notizie delle scarcerazioni dei boss nelle ultime settimane lo hanno turbato. “Una cosa assurda, abominevole – dice -. E’ stato uno sbaglio compiuto da incompetenti o una scelta precisa? Io a questo punto ho i miei dubbi. Fortunatamente c’è stata un’indignazione nazionale, un moto di ribellione da un capo all’altro dell’Italia”. La fiducia nello Stato, nonostante gli anni di depistaggi e verità mancate, però, Costanza non l’ha mai persa, anche se, ammette con amarezza, “dentro le Istituzioni ci sono anche tanti che sono arrivati per altri scopi. I mafiosi una volta erano quelli con la coppola, oggi invece sono i tanti colletti bianchi che affollano i palazzi del potere. E lì che bisogna scavare, perché Cosa nostra senza l’appoggio di questi personaggi non esisterebbe”.
Ecco perché, secondo l’uomo che per otto anni ha accompagnato Falcone, occorre tenere bene a mente che “l’antimafia non si fa solo il 23 maggio“. “Oggi più che mai è necessario valutare con attenzione chi fa antimafia e chi, invece, vive di antimafia. Il mio auspicio? Che chi ha sbagliato possa pagare e oggi a chiederlo non è solo Giuseppe Costanza, figlio di un ferroviere, onesto cittadino italiano, ma l’Italia intera. Non possono più prenderci in giro”. (AdnKronos)