Iran a secco: l’acqua diventa arma e mina geopolitica
L’acqua come nuova frontiera del potere
Non è solo oro blu: l’acqua è ormai strumento di potere, ricchezza e deterrenza. Nel cuore delle tensioni geopolitiche, diventa risorsa di negoziazione, arma e moneta di scambio. Lo dimostra la Cina con la diga sullo Yarlung Zangbo, simbolo di una strategia idro-egemonica capace di piegare i confini e ridefinire interi equilibri regionali. L’acqua non è più un diritto, ma un bisogno da garantire o da negare.
Teheran, capitale allo stremo
Il bacino della diga di Amir Kabir, lungo il fiume Karaj, è ai minimi storici: per la prima volta da 46 anni Teheran affronta una carenza idrica senza precedenti. Le riserve dei 19 grandi invasi del Paese sono scese sotto il 20%.
Nella capitale, i bacini contengono 414 milioni di metri cubi d’acqua, contro una media stagionale di 925 milioni. Le autorità hanno imposto tagli ai consumi del 30–40%, con la chiusura del settore pubblico in 31 province e servizi essenziali ridotti all’osso.
Dalla crisi idrica alla crisi energetica
Se manca l’acqua, manca anche la luce. Elettricità razionata, blackout a catena, commercio paralizzato, famiglie costrette a ricorrere a taniche e secchi come negli anni ’50.
Il collasso ambientale iraniano non è ciclico ma strutturale: pozzi trivellati senza controllo, agricoltura mal gestita, corruzione endemica e gli attacchi israeliani che hanno colpito infrastrutture strategiche.
La promessa infranta della Rivoluzione
Nel 1979 Khomeini garantì “acqua ed elettricità gratuite” a tutti gli iraniani. Oggi, 192 dighe — dieci volte di più rispetto a quarant’anni fa — dimostrano il fallimento di un modello infrastrutturale che, in un paese arido, ha favorito evaporazione, salinità dei suoli e subsidenza fino a 31 cm l’anno a Teheran.
Eppure la Persia antica aveva già trovato la soluzione con i Qanat, canali sotterranei di 2700 anni fa che portavano l’acqua dalle falde alla superficie: un’eredità dimenticata.
Un regime sotto pressione
Secondo fonti citate dal Jerusalem Post, la crisi idrica e le proteste popolari montanti rischiano di mettere il regime con le spalle al muro. La Guida Suprema Khamenei appare indebolita, mentre una parte dei pasdaran valuta un cambio di leadership.
Intanto i bazaari, storici alleati del clero, guardano sempre più alle forze armate. L’ipotesi di uno Stato post-teocratico, con presidente e primo ministro ma senza guida suprema, non è più fantascienza.
Il peso della demografia e del clima
Dal 1979 la popolazione iraniana è passata da 37 a oltre 80 milioni di abitanti. La politica del “baby boom” voluta dalla Guida Suprema ha moltiplicato i consumi idrici senza garantire nuove risorse. A questo si aggiungono ondate di calore, siccità record, inondazioni improvvise e inquinamento industriale.
L’Iran è il primo Paese della regione per emissioni di gas serra e il settimo al mondo: un mix esplosivo che accelera il degrado ambientale.
Un Paese al collasso?
Oggi le dighe che riforniscono Teheran sono al 5% della capacità. Secondo Issa Kalantari, ex capo dell’Organizzazione per la protezione ambientale, la situazione è come “un conto in banca scoperto”: le acque sotterranee, il risparmio del Paese, sono finite.
Tra autarchia agricola, sprechi, corruzione e sanzioni, l’Iran rischia non solo il blackout idrico ma anche il collasso politico.
Il vulcano iraniano
“L’Iran è come un vulcano dormiente. Basta una scintilla per farlo esplodere”, ha dichiarato l’ex parlamentare Parvaneh Salahshouri.
La guerra dei 12 giorni ha solo temporaneamente attenuato le proteste, ma la sete di acqua e di giustizia rischia di trasformarsi in un’onda sociale incontrollabile.
La vera domanda è se il dopoguerra sarà l’occasione per una svolta politica o la resa dei conti di un popolo ormai stremato.
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