Esercito

“UN OTTIMO SOLDATO: SONO TORNATO IN AFGHANISTAN PER LUI”

Si sono ritrovati, come ogni anno, per ricordare un commilitone, un amico, un eroe. I paracadutisti dell’ottavo genio guastatori della Folgore si sono stretti ieri intono alla famiglia di Alessandro Di Lisio, ad otto anni di distanza da quel maledetto 14 luglio. Quel giorno la vita del caporal maggiore campobassano, di appena 25 anni, fu spezzata da un ordigno posizionato sulla strada tra Farah e Ganjabad, in Afghanistan. Alessandro si trovava in missione di pace nel Paese controllato dai talebani da quattro mesi e faceva parte di un team specializzato nella bonifica delle strade prima del passaggio di convogli militari e diplomatici.

Il 14 luglio del 2009 era impegnato con un gruppo di commilitoni a bordo di due veicoli Lince e di un mezzo blindato Coguar. Ma lungo quella strada qualcosa andò storto: la pattuglia di paracadutisti della Folgore e del Primo Reggimento Bersaglieri venne colpita dall’esplosione di una bomba che distrusse il primo mezzo della colonna, a bordo del quale si trovava il parà campobassano. Nonostante l’immediato ricovero, Alessandro Di Lisio morì poco dopo all’ospedale militare di Farah.

I suoi compagni non sono voluti mancare ieri mattina, al fianco di mamma Dora e papà Nunzio, alla cerimonia tenuta prima davanti alla cappella del cimitero di Campobasso e alla messa celebrata nella chiesa di San Giovanni Battista a Campobasso da monsignor Gabriele Teti.
«Alessandro era un ragazzo solare, intelligentissimo, sempre pronto – il ricordo di un parà che ha vissuto gli ultimi drammatici istanti al fianco di Alessandro – Si metteva a disposizione sia per i suoi superiori che per i suoi pari grado. Quindi dal lavoro più umile al lavoro più impegnativi Alessandro lo trovavi sempre in prima linea. Al di là del lato umano posso dire che era un ottimo soldato e proprio grazie alla sua bontà e alla sua intelligenza riusciva ad arrivare dove altri soldati non riuscivano ad arrivare. Appartenevamo allo stesso equipaggio – racconta senza nascondere la commozione – il nostro era un sevizio di controllo della sicurezza del territorio, il nostro incarico era di ricerca e distruzione di ordigni per far sì che la popolazione e le nostre unità di manovra della coalizione Nato avessero strade sicure per spostarsi da una zona all’altra. Ahimè quel giorno è andato tutto storto, e non abbiamo visto l’ordigno celato sotto il manto stradale». La mente, poi, ritorna a quei momenti : «Io ho riportato la frattura del braccio, ho riportato ferite alla teste, ho un cristallino artificiale all’occhio sinistro, varie protusioni alla schiena procurate dall’onda d’urto. La convalescenza è stata un po’ lunga però, come avrebbe fatto anche Alessandro, appena ho avuto occasione di tornare in servizio in quel posto non ho esitato per cercare di concludere quello che avevamo lasciato incompiuto. Quindi un anno e mezzo dopo sono tornato in Afghanistan a ripercorrere quelle strade che noi garantivamo sicure. Sono tornato per me stesso per capire se potevo continuare a fare quel lavoro e sono tornato lì per Alessandro – dice con le lacrime agli occhi – per finire quello che avevamo lasciato in sospeso».

Dopo la toccante testimonianza del militare, il momento di raccoglimento in chiesa: «Anche quest’anno constatiamo come, per molti di noi, prevale la necessità di raccoglierci in preghiera – le parole di don Teti – nel ricordo del nostro amatissimo Alessandro che, come i suoi 53 amici caduti in Afghanistan per la pace e la libertà, è morto da eroe nell’adempimento del proprio dovere! Con questa certezza ha vissuto il nostro Alessandro, amando l’altro più di se stesso e preferendo la vita degli altri alla propria. Alessandro era una presenza amica, un giovane a cui il coraggio non mancava, dando prova di generosa dedizione e indiscussa determinazione, qualità interiori che trovano radice in un cuore aperto alla giustizia e alla verità. Un coraggio, quello di Alessandro, non per colpire e uccidere ma per tutelare e garantire, seminando comprensione e concordia là dove c’è disprezzo ed odio. Un giovane luminoso, educato in famiglia e in caserma, ad uno stile di gratuità verso i più deboli e disagiati. L’attentato che l’ha ucciso non ha colpito soltanto lui, ha ferito alcuni suoi commilitoni, rimasti sempre vicini alla famiglia di Alessandro in tutti questi anni, (ed anche oggi qui presenti), i suoi genitori, le due sorelle, il Cme Molise e l’intera comunità nazionale. C’è un valore eterno di una vita caduta a terra, anche se non è dato di conoscere i tempi del germoglio …

Le beatitudini sono il cuore del Vangelo. In esse Gesù ci racconta la sua vita: ha vissuto da povero, mite, pacifico, con occhi tanto liberi da vedere germi di bontà in ogni persona. Beati quelli che sono nel pianto. Dio è dalla parte di chi piange, non dalla parte del dolore. Eppure la morte del nostro carissimo Alessandro comporta, ancora oggi, grande rabbia e indescrivibile dolore. Davanti a questa tragedia non ci sono parole di consolazione, capaci di lenire una ferita che non può e non vuole essere rimarginata. E nel silenzio, delicato e rispettoso, ci apriamo alla convinzione che l’amore è più forte della morte, l’alba del sole più forte dell’oscurità della notte. Le nostre lacrime raccontano una storia. Quando piangiamo infatti, anche se lo facciamo nella più stretta solitudine, ci rivolgiamo a qualcuno. Noi piangiamo perché un altro veda. Nel riflesso delle lacrime c’è il Signore, forza della nostra forza. Il Dio a cui oggi ci affidiamo era con Alessandro quando da soldato dell’Esercito Italiano aiutava le popolazioni dell’Afghanistan in difficoltà e soprattutto alla ricerca disperata della pace.

Come Alessandro, c’è una moltitudine che nessuno può contare, come le stelle del cielo, che preparano un futuro migliore per tutti. Chi rende il mondo meraviglioso non sarà chi accumula potere e denaro, escludendo, emarginando, scartando, alzando mura e barricate. La nostra città di Campobasso, come l’intera nostra amata Patria, l’Italia, respira un esercito silenzioso e sconosciuto che tesse solidarietà nel lavoro, nelle case, nelle nostre caserme, dando prezioso e qualificato aiuto, offrendo onestà nelle relazioni interpersonali. Beati i nostri soldati, veri operatori di pace che in questi anni, con coraggio e generosità, sono stati più determinati della guerra e dell’odio. Sì perché la volontà di rinascere è superiore alla morte innocente. Il terrorismo internazionale, con il suo odio e la guerra, non ha distrutto e non può distruggere l’amore di un Dio che opera in noi, al di là della nostra precaria condizione umana. Non lasciamoci rubare la speranza». mariagrazia d’uva per primopiano.it

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