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PANSA: “E’ CACCIA AI POLIZIOTTI, IL GOVERNO LI DISARMA”

(di
Giampaolo Pansa) – Avete mai visto uccidere un poliziotto? Io sì.
Mi accadde a Milano nel 1969, in un novembre più o meno simile a questo, il
mercoledì 19. Come avviene oggi, anche allora la Triplice sindacale aveva
proclamato uno sciopero generale. Al Teatro Lirico, in via Larga nel centro
della città, i capi delle tre organizzazioni avevano tenuto un comizio nemmeno
tanto incendiario. Il più applaudito era stato Bruno Storti, il segretario
generale della Cisl, tribunizio, sempre alla ricerca dell’effetto parolaio.

Omicidio
Annarumma –
 Poco dopo le undici, la gente raccolta al
Lirico cominciò a sfollare. Faceva freddo, c’era il sole, il cielo su Milano
era altissimo e azzurro. Lo scenario giusto perché non succedesse nulla. Invece
su via Larga comparvero all’improvviso tre cortei. Uno del Movimento
studentesco che dopo essere stato davanti al Palazzo di giustizia stava
tornando all’Università. Il secondo di anarchici, non più di una cinquantina.
Tra loro c’era anche un frenatore delle ferrovie, un quarantenne con baffi e
pizzetto che qualche settimana dopo sarebbe diventato il centro di un enigma
mai risolto: Giuseppe Pinelli. Il terzo corteo era il più
imponente. A organizzarlo era stata l’Unione dei comunisti italiani
marxisti-leninisti. Una parata con bandiere rosse, striscioni, cartelli pieni
di promesse: “Il governo rivoluzionario darà una casa a tutti”. Quasi un
migliaio di persone, con molte donne e bambini. Al collo portavano fazzoletti
tutti uguali, con la scritta: “Servire il popolo”. I bambini alzavano il
libretto rosso di Mao. All’improvviso esplose il caos. Via Larga venne invasa
da giovani decisi a scontrarsi con la polizia che sorvegliava l’uscita dal
Lirico. Cominciarono a farlo subito grazie a un arsenale adatto alla battaglia:
il cantiere per rifare la facciata dell’anagrafe comunale, accanto al teatro.
Decine di tubi d’acciaio Innocenti divennero armi micidiali. Uno di questi,
usato come lancia, trafisse un giovane agente che guidava un gippone. Insieme
ad altri due cronisti, lo vidi accasciarsi sul volante e sbandare. Morì poco
prima delle tre del pomeriggio al Policlinico, dopo un inutile intervento nel
reparto di chirurgia d’urgenza.

Il poliziotto ucciso si chiamava Antonio Annarumma. Aveva 22 anni e
veniva da Monteforte Irpino, un paese della provincia di Avellino, stretto a
sud dalla piana di Battipaglia, un posto da disperati, e a nord dal deserto
dell’Alta Irpinia. Quattromila anime, compresi i mille emigrati all’estero. In
quel mortorio non mancava soltanto il lavoro. Niente cinema, nessun ritrovo,
zero sale da ballo, una piazza per passeggiare e basta. 
A
Monteforte la vita era ferma a due secoli prima. Guardare il nastro
dell’autostrada Napoli-Bari, a mezza costa sulle colline che fronteggiano il
paese, era scrutare la luna. Il padre di Antonio, Carmine Annarumma, era un
bracciante uscito da un romanzo sulla miseria dell’Ottocento. Quando il parroco
e il maresciallo dei carabinieri andarono a informarlo che il figlio era morto,
stava tornando dal lavoro sui campi. Tanto sfinito dalla fatica che, lì per lì,
non comprese quel che gli stavano dicendo.
I
nemici –
 La fine di Annarumma fece capire, a chi voleva
intendere, che esistevano ragazzi in divisa incaricati di proteggere la nostra
tranquillità anche a costo di morire. Ma la borghesia di sinistra continuò a
considerare nemici i poliziotti e i carabinieri. Sull’agente ucciso in via
Larga si costruirono favole assurde, raccolte da una parte dei giornali. In
quel tempo emerse un paradosso che resiste tuttora. Più un ceto era abbiente e
acculturato, più odiava i poveri che per uno stipendio da fame avevano il
dovere di tutelarlo.
Me ne
resi conto il giorno che vidi il gesto di una ragazza che conoscevo di vista,
nipote di un vecchio avvocato. In uno dei tanti sabati del disordine milanese,
camminava nel gruppo di testa di un corteo. Quando si trovò di fronte alla
prima fila di agenti, con un gesto improvviso si alzò la gonna, si calò lo slip
e mostrò il tesoro che custodiva tra le cosce. Quindi urlò: «La vedete questa
fica? Non è roba per voi, sporchi questurini, ma per i proletari che voi della
pula picchiate e uccidete!».
La
stessa storia di allora –
 Da quell’epoca sono trascorsi
quarant’anni, un tempo infinito che non devo voltarmi a scrutare per non
avvertire il vuoto alle mie spalle. Eppure è ricominciata la stessa storia di
allora. Poliziotti e carabinieri sono di nuovo sotto accusa. Picchiano gli
operai delle aziende in crisi. Pestano persino le donne incinte e gli provocano
l’aborto. Non sono più forze dell’ordine, perché fomentano il disordine di chi
si limita a protestare. Replicano con cattiveria ai mattoni, alle pietre, alle
molotov che gli piovono addosso.  Non tutti gli italiani la pensano così.
Ma ho il sospetto che nel governo stia prevalendo un atteggiamento suicida. La
sinistra, o quanto le assomiglia, vorrebbe dormire sonni tranquilli, protetta
da angeli custodi capaci di controllare le piazze con qualche appello urlato
nei megafoni. «Se vi attaccano, dialogate» sembra essere la norma cardine delle
nuove regole d’ingaggio per le forze dell’ordine.
Renzi
che sbaglia – 
A questo punto dovrei tirare in ballo il
premier, il Matteo Renzi che ama dipingersi come un boy scout pronto a
comprendere il “disagio sociale” di chi protesta. Però mi sono stancato di
considerarlo l’unico ispiratore di un atteggiamento che considero sbagliato,
perché capace di produrre il peggio invece del meglio. E preferisco confessare
ai lettori del Bestiario le mie previsioni amare. 
In
questo inverno del 2014, l’Italia si troverà al centro di una tempesta dagli
esiti ignoti. Tutti gli attori in campo stanno uscendo di senno. Persino un
furbone come Maurizio Landini, il capo della Fiom e futuro leader della Cgil,
si lascia scappare parole incaute. Gli antagonisti, gli anarchici che
maneggiano bombe, le truppe dissennate dei centri sociali, i cani sciolti che
vogliono il caos, diventeranno sempre più aggressivi. Ogni giorno, in molte
città italiane, qualcuno farà la prova generale dello sfascio.  Gli
italiani pacifici hanno un solo difensore: le forze dell’ordine. Se ne rende
conto il boy scout di Palazzo Chigi? Oppure considera anche questi cittadini
per bene dei gufi, dei rosiconi, degli inguaribili pessimisti che non vedono il
glorioso futuro della nostra repubblica? Il premier deve stare attento a non
commettere questo errore.
Allo
stesso modo deve sapere che garantire la tranquillità sociale è un dovere
primario rispetto al “disagio sociale”, l’attenuante escogitata da un
magistrato per lasciare in libertà quattro rumeni che avevano occupato un
appartamento non loro. Anche un bambino è in grado di prevedere che la crisi
economica porterà in piazza milioni di persone che hanno perso il lavoro o
temono di non trovarlo. È uno scotto che non pagherà l’Italia da sola, ma anche
altre nazioni europee. Soprattutto chi vive nelle grandi città dovrà sperare
che la barriera degli agenti e dei carabinieri sappia reggere l’urto nel modo
migliore. Anche nel caso che ci scappi il morto da una parte o dall’altra, un
evento terribile sempre dietro l’angolo.
Il
Padreterno –
 Per tornare alla storia di Annarumma,
resta da aggiungere che la sera del 19 novembre 1969 molti agenti volevano
uscire dalla caserma Sant’Ambrogio. Per invadere l’università, con le armi in
pugno. Quella sommossa fu scongiurata. Il Padreterno ci protesse tutti. Ma
confidare in lui non basta, poiché anche Iddio qualche volta si distrae.

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