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L’ESERCITO ITALIANO HA UN PROBLEMA COL DISTURBO POST-TRAUMATICO DA STRESS DI CUI NESSUNO PARLA

Secondo le statistiche ufficiali, dal 2003 al
2013 si sono tolti la vita 241 militari italiani. Pur essendo alto,
il numero è nettamente inferiore in confronto a quello degli Stati Uniti, dove
nel solo 2012 si sono suicidati 349 membri dell’esercito—più di quelli che nello
stesso anno sono morti nei diversi scenari di conflitto in cui operano gli USA.

L’ultimo caso italiano risale al novembre scorso,
quando un militare italiano – sposato e padre di una bambina – si è impiccato nel garage di casa. Prima di lui era
toccato a un caporale maggiore di Udine: un passato tra Kosovo, Iraq e Libano,
l’uomo si è tolto la vita nel marzo 2015 lasciando moglie e figli. Un
gesto apparentemente inspiegabile, senza una motivazione chiara.
Questi suicidi – infatti – spesso non trovano
risposta, e colgono di sorpresa anche gli stessi famigliari. A contribuire a
questo silenzio, inoltre, ci sono anche le istituzioni italiane, che non hanno
mai aperto un dossier vero e proprio sull’argomento, senza chiarire cosa passi
davvero nella testa delle decine e decine di militari a prima vista sereni, ma
intimamente devastati.
In questo senso, il 2013 è stato uno spartiacque.
Un’interrogazione parlamentare presentata dall’onorevole Marco Marcolin ha
costretto per la prima volta il governo a rendere conto tanto sul tema dei
suicidi – e sopratutto – su una questione ad esso legata: il disturbo
post-traumatico da stress (DPTS) nel corpo militare italiano.
Riprendendo la definizione dell’Associazione Italiana di
Psicologia Cognitiva, questo disturbo si manifesta “in conseguenza di un
fattore traumatico estremo, in cui la persona ha vissuto, ha assistito, o si è
confrontata con un evento o con eventi che hanno implicato morte, o minaccia di
morte, o gravi lesioni, o una minaccia all’integrità fisica propria o di
altri.”
Quello del disturbo post-traumatico da stress è
un problema storicamente diffuso negli eserciti di tutto il mondo: è nota, per
esempio, la “sindrome del Vietnam,” che ha costretto in uno
stato di disagio psicologico e di ansia migliaia di soldati americani, molti
dei quali finiti poi in un tunnel di violenza, tossicodipendenza e suicidi.
Ad oggi, secondo i dati forniti dal PTSD National Center, il disturbo
avrebbe un’incidenza annuale compresa tra l’11 e il 20 per cento nei soldati
americani di ritorno dalle missioni OIF (Iraq) e OEF (Afghanistan).
Poco più basse le statistiche in Canada, dove il
governo dichiara un’incidenza annuale del DPTS del 5 per cento
nel 2013—sebbene poi la statistica salga all’11 per cento se si prende in
considerazione l’intero corso della vita dei militari canadesi.

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In Europa i numeri cambiano in meglio, ma
segnalano quanto il problema sia comunque molto rilevante. In Francia, ad
esempio, nel solo 2013 circa 550 soldati si sono visti diagnosticare questo disturbo; in
Germania i 431 militari che ne hanno sofferto nel 2014 rappresentano un’incidenza poco superiore al 3 per
cento. Norvegia e Danimarca, invece, hanno un tasso rispettivo del 5 per cento e
del 9 per cento, mentre in Inghilterra studi scientifici parlano di un’incidenza del DPTS nel corpo militare
superiore al 4 per cento.

Chi si distingue da queste statistiche è
l’Italia. Fino al 2013 il DPTS nel corpo militare italiano, apparentemente, non
esisteva. Poi, con l’interrogazione parlamentare dell’onorevole Marcolin, il
governo ha dovuto affrontare pubblicamente il problema, affermando che “agli atti dell’Osservatorio
Epidemiologico della Difesa sono presenti 16 casi, di cui 3 nel 2007, 9 nel
2008, 1 nel 2010 e 3 nel 2011; risultano estrapolati dai ricoveri
(post-sgombero da Teatro Operativo estero) presso il Celio 16 casi, di cui 2
nel 2008, 3 nel 2009, 1 nel 2010, 3 nel 2011 e 7 nel 2012.”
Rispetto alle migliaia di casi riscontrabili in
altri eserciti europeei, le autorità italiane affermano che i soli 32 casi
in 7 anni si spiegano in due modi: la migliore selezione del personale, e
il minore carico operativo. I dubbi in merito, però, non mancano.
Amelia Alborghetti, psicoterapeuta con un
trascorso alla Palo Alto Psychology School, nel 2013 ha condotto una ricerca indipendente sul tema del PTSD nel corpo
militare italiano. Il suo studio, intitolato Valutazione dei disturbi
da stress post-traumatici (PTSD) di eventi bellici e individuazione di
percorsi riabilitativi
, si è focalizzato su 25 militari italiani di ritorno
dalla missione in Afghanistan.
“Quando ho preso contatto con il Policlinico
militare Celio ed altre autorità militari ho trovato un muro davanti,”
racconta Alborghetti a VICE News. “Mi hanno affiancato un collega militare
e mi hanno addirittura detto: ‘facciamo noi le ricerche e lei mette la
firma al lavoro’.”
La psicoterapeuta si è quindi mossa da sola e,
grazie al supporto di un generale dell’esercito, è riuscita a costruirsi il suo
campione di 25 soldati. La ricerca è avvenuta attraverso il CAPS, un colloquio
clinico guidato che segue un percorso di interviste, spesso molto lungo, e si
concretizza poi in un punteggio finale. Si tratta di uno strumento
appositamente realizzato per la valutazione del disturbo post-traumatico da
stress, e che da sei anni è stato adeguato anche alla lingua italiana.
Tutti e 25 i soggetti sottoposti al test
risultavano affetti dal DPTS, con un valore medio considerato grave.
“Quello che è venuto fuori per loro non è stata tanto una forma di
depressione e aggressività esterna, come succede in America, quanto piuttosto
una forma di autoaggressività,” spiega Alborghetti.
I sintomi emersi più visibilmente sono
chiusura sociale, auto-svalutazione, perdita di autostima, rabbia con sé
stessi. “Le persone sottoposte allo studio riconoscevano i loro
problemi, lì davanti a me. Ma non pubblicamente,” continua
Alborghetti. “Alcuni sono scoppiati a piangere durante il colloquio,
venivano presi da attacchi d’ansia, scendevano a fumare una sigaretta per
rilassarsi.”
Trovarsi davanti a un maresciallo, che riferirà
tutto allo Stato Maggiore, rende molto più difficile l’ammissione del disturbo
da parte dei militari. Se a questo si aggiunge l’atteggiamento delle autorità
nazionali, che sembrano rinnegare il problema, si capisce come affrontare
il tema del DPTS nell’arma diventi qualcosa di particolarmente complesso.
Rocco Bozzo è uno dei reduci italiani
dell’attentato di Nassiriya del 2003. A lui, come a molti altri suoi compagni
sopravvissuti quel giorno, è stato diagnosticato il disturbo post-traumatico da
stress. “Chi ne soffre, ed è in servizio, difficilmente ne parla per paura
di perdere il posto—anche perché se vieni dichiarato affetto dalla sindrome non
sei più idoneo alla detenzione e all’uso delle armi. Risultato: fine
lavoro,” spiega Bozzo a VICE News.
L’uomo racconta come i sintomi non siano comparsi
da subito, e di come la situazione sia peggiorata drasticamente con il
passare del tempo. “Cambia il rapporto con la moglie, con i figli. Di
notte ti svegli di soprassalto, diventi facilmente irritabile, certi odori sono
come pugni nello stomaco, senti il bisogno di stare da solo, la necessità di
sentire i colleghi—solo con loro ti capisci.”
Quello che però né a lui, né ai suoi compagni, è
mai andato giù è stato l’atteggiamento delle autorità nei loro confronti. Il
primo supporto psicologico gli è stato dato ben due mesi dopo l’attentato,
mentre la prassi prevederebbe un intervento già nelle 24-48 ore successive
all’evento. “Siamo stati lasciati soli,” afferma Bozzo. “Lo
Stato italiano e la sanità militare cercano di minimizzare la sindrome, come se
i nostri militari fossero sempre sani nella mente e nel fisico.”
Vista l’assenza di un supporto statale adeguato,
Bozzo e i suoi colleghi si sono mossi in modo autonomo e indipendente per
combattere il disturbo. Molti di loro hanno intrapreso un percorso
riabilitativo presso il Centro Igiene Mentale di Finale Ligure, dove oggi è
presente un ambulatorio specifico per la cura dei traumi legati al disturbo.
“Il disturbo post-traumatico da stress non
si può eliminare completamente,” racconta a VICE News Sabrina Bonino,
psicologa attiva nel centro. “Diciamo che si impara a conviverci, e che il
percorso di riabilitazione dura anni.” Nel caso specifico dei militari, si
è utilizzato un metodo psicoterapeutico innovativo – l’EMDR – basato su una tecnica di simulazione bilaterale
che facilita la rielaborazione dei traumi.
Ma com’è possibile una differenza così marcata
tra le statistiche italiane e quelle degli altri paesi europei? “La
distribuzione delle patologie psichiatriche nella popolazione europea è
abbastanza simile, quindi presumo possa esserlo anche per il DPTS,” afferma
a VICE News Daniele Moretti, responsabile del CIM di Finale Ligure.
“L’idea che ci siamo fatti, però, è che in Italia esiste un problema
di rilevamento”.
Problemi che non sembrano invece esistere
in l’Olanda. Nel 2000, nella piccola cittadina di Doorn, è stato creato il Netherlands
Veterans Institute, un centro studi che raccoglie informazioni e promuove
la ricerca scientifica su temi legati alla salute dei veterani di guerra.
Stefania Scagliola, esperta di storia militare
olandese, ci ha lavorato per diversi anni. “Il centro è stato creato in
conseguenza di frequenti casi di DPTS che sono venuti a galla dopo le missioni
olandesi in Libano, negli anni Ottanta, e poi a Srebrenica,” spiega a VICE
News.
Secondo Scagliaola, la scarsa preparazione
ed una selezione poco severa sarebbero stati una combinazione fatale. Da qui la
necessità di un centro per l’assistenza sociale e medica per i reduci di guerra
olandesi, di carattere indipendente ma tuttora finanziato dal ministero della
Difesa. “Viste le mie radici, ho provato a informarmi per realizzare un
progetto simile anche in Italia,” spiega Scagliola, che si è tuttavia
arresa vista la scarsa disponibilità a collaborare da parte delle autorità
competenti.
Quello che viene da chiedersi, dunque, è perchè
trattare il DPTS nel corpo militare italiano sia ancora una sorta di tabù.
“Ci sono stati 56 morti italiani in Afghanistan dall’inizio delle
operazioni, e non sono pochi,” afferma Amelia Alborghetti a VICE News,
“Non si parla di guerra, quello che si dice è che noi andiamo là e
facciamo un controllo di pubblica sicurezza. Le chiamano missioni di
pace.”
Secondo Alborghetti, il fatto che la legislazione
italiana non riconosca il disturbo dal punto di vista del risarcimento – a
differenza della lesione fisica – accresce ancora di più l’incertezza sul tema.
“Se io dico che queste persone tornano con
dei danni, poi devo ammettere che vanno in una guerra—cosa che la costituzione
italiana rinnega. All’estero sono più trasparenti.”

Anche Rocco Bozzo, il superstite di Nassiriya,
vede nell’articolo 11 della costituzione il principale
motivo del silenzio delle autorità sul tema del disturbo post-traumatico da
stress nel corpo militare italiano. “Riconoscere la sindrome forse
significa ammettere che siamo in zona di guerra. E questo, per la Costituzione,
non va bene.”
di Luigi Mastrodonato

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