Polizia

AI TERRORISTI IN FUGA NON SI SPARA, LA LEGGE LO VIETA. POLIZIA E UTILIZZO DELLE ARMI

Se un terrorista dell’Isis compisse una strage in una qualsiasi città italiana e scappasse armato, le forze dell’ordine non potrebbero fermarlo sparando. Non alle spalle, per lo meno. E non lo possono fare per legge, che invece obbliga a una riflessione sulla legittimità di un eventuale intervento armato. La denuncia è di Gianni Tonelli, segretario del Sindacato autonomo di polizia: “L’utilizzo delle armi è un argomento trattato in maniera complicata e molte volte irragionevole nel nostro ordinamento». Un argomento che impone una seria riflessione e per questo vi proponiamo un intervista rilasciata dal segretario del SAP ad Adriano Scianca per la Verità.

Chi ha compiuto una strage, e magari sta scappando per fare un altro attentato, non può essere fermato colpendolo alle spalle Tonelli (Sap): «L’utilizzo delle armi da parte delle forze dell’ordine è trattato dal legislatore in modo complicato e irragionevole»

Immaginare la scena, purtroppo, è tutt’altro che impossibile: un gruppo di miliziani jihadisti entra in un locale di Roma, Milano, Napoli o Firenze e uccide i presenti con le terribili modalità cui ci ha abituato l’Isis. Dopodiché, i terroristi escono dal luogo del delitto e, kalashnikov in mano, fuggono tra la folla. Cosa dovrebbe fare una pattuglia della polizia che, passando di lì, vedesse i tagliagole fuggire? Sparare, rispon-deremmo tutti. E invece no, spiega Gianni Tonelli, segretario del Sindacato autonomo di polizia. No, gli agenti non potrebbero sparare a dei terroristi alle spalle, «non potrebbero tentare di fermarli con le armi, perché secondo la legge italiana il pericolo in quel momento non è attuale».

Insomma, un poliziotto, per poter sparare a un soldato del Califfato, deve coglierlo in flagrante. Ma se ha appena compiuto una strage e sta magari per compierne un’altra, però in quel momento non sta sparando, allora le forze dell’ordine sono impotenti. Colpa di una normativa astrusa e inefficace.

 «L’assurdità del sistema legislativo», spiega Tonelli, « impedisce alla polizia di sviluppare una logica attività di prevenzione per cui con lo «strumento delle spalle» ogni assassino può farla franca. L’utilizzo delle armi è un argomento trattato in maniera complicata e molte volte irragionevole, nel nostro ordinamento. Noi poli-ziotti possiamo utilizzare le armi solo nel momento in cui affrontiamo un pericolo grave da evitare, ma non abbiamo la possibilità di fare una proiezione futura su quanto potrebbe accadere da li a pochi istanti».

Il segretario del Sap fa l’esempio dell’Isis, ma ha in mente un caso di cronaca molto più prosaico: quello relativo alla morte di Bernardino Budroni, che il 30 luglio 2011 perse la vita durante un inseguimento con una pattuglia della polizia. Poco prima, il romano – 40enne pluripregiudicato e denunciato in precedenza per stalking – aveva sfondato a calci il portone del palazzo della sua fidanzata, aveva esploso alcuni colpi con una pistola a salve, minacciando la donna e tentando di entrare nel suo appartamento. All’arrivo degli agenti chiamati dalla donna, Budroni era scappato.

Morirà intorno alle 5, sul Grande raccordo anulare, all’altezza dell’uscita Nomentana, dopo aver ignorato l’alt della polizia. A sparare fu l’agente Michele Paone, assolto in primo grado, ma per cui è stata richiesta la condanna a un anno e mezzo di reclusione per omicidio colposo. Ma quand’è, allora, che le forze dell’ordine possono sparare legittimamente? «Il codice è chiaro», spiega Tonelli, «si può sparare senza commettere reato solo per legittima difesa e uso legittimo delle armi. L’articolo sulla legittima difesa parla di una “offesa attuale e ingiusta”. Ma se uno mi gira le spalle dopo aver ucciso 50 persone, il pericolo non è più attuale, quindi io non posso sparare. L’uso legittimo implica il fatto di “vincere una resistenza o respingere una violenza”. Nel momento in cui uno mi gira le spalle, non c’è più né una violenza da respingere, né una resistenza da vincere». Di fronte a un nuovo Anis Amri che sta scappando dopo un attentato, sembra francamente un po’ troppo chiedere agli agenti di dedicarsi a una riflessione simile sulla legittimità di un intervento armato. Anche dopo gli attacchi alla Francia, del resto, si parlò di qualche inefficienza poliziesca: ci furono squadre appostate che tardarono a intervenire, per esempio, per mere questioni di giurisdizione o cavilli burocratici.

Eppure, assicura Tonelli, «da questo punto di vista gli altri, in Europa, stanno molto meglio di noi, normativamente. Le maglie dell’intervento legittimo sono molto più ampie, vi è una disponibilità maggiore da parte della magistratura. Dopo l’attacco a Charlie Hebdo, i francesi hanno investito 500 milioni di euro nell’immediato, assumendo 2500 persone in più. Hanno investito in formazione e nuove armi. Nella gestione Renzi-Alfano non si è fatto nulla, nonostante le nostre vibranti proteste. Anzi, da noi hanno tagliato organici e risorse per la formazione e gli armamenti».

Servono investimenti, quindi. E, secondo Tonelli, maggiore libertà di azione per gli agenti: «Quando uno non rispetta un ordine dato da un’autorità, devo poterlo fermare, senza magari arrecare danno alla persona. Non deve essere l’interpretazione del magistrato a stabilire che io ho sparato legittimamente, mi deve essere consentito dalla legge».

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